In classe senza Sardegna: storia di un’identità negata tra i banchi di scuola
Il nuovo anno scolastico si apre tra precarietà e vecchie ferite: in Sardegna la scuola resta il principale strumento di italianizzazione, a scapito della lingua e della cultura locali.
È settembre, riaprono le scuole. La situazione non è rosea, conseguenza di un precariato in crescita tra il personale docente e gli effetti di anni di tagli alla spesa nella scuola pubblica che ricadono a cascata sulla qualità della docenza e sui fondi disponibili per le istituzioni scolastiche – dunque, in ultima analisi, sugli studenti stessi. Ma i tagli, la precarietà, la trasformazione dell’istruzione pubblica in un modello di scuola-impresa – iniziati già con il governo Renzi – non sono l’unico problema della scuola italiana.
Certo è che la scuola, per l’attuale governo, è un terreno di grandissima importanza. «La formazione e l’istruzione rappresentano l’architrave su cui costruire un’Italia protagonista di una nuova epoca», ha dichiarato la presidente Giorgia Meloni al meeting di Comunione e Liberazione a Rimini. Ma in questo non vi è assolutamente niente di nuovo. La scuola pubblica è uno dei pilastri dello Stato-nazione, assieme alla giustizia, l’apparato di polizia, l’amministrazione e, in misura diversa, i media. Ed è un’istituzione assolutamente centrale per lo Stato, perché forma i cittadini nazionali.
La scuola che fa gli italiani
Storicamente, la scuola è stata lo strumento principale per costruire l’Italia, perché tramite l’istruzione scolastica centinaia di migliaia di bambini e giovani durante il Novecento sono stati educati a percepire da zero un senso di appartenenza che prima era inesistente: educati a sentirsi italiani. In altre parole, la scuola pubblica in Italia ha “creato” gli italiani tramite un intervento capillare di alfabetizzazione e istruzione di massa, avviato a fine Ottocento e proseguito nel tempo senza mai interrompersi, su tutto il territorio della penisola e nelle isole di Sicilia e Sardegna.

In Sardegna non è stata impresa facile. Era ancora il 1972 quando nella relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sui fenomeni di criminalità in Sardegna l’onorevole Medici scriveva: “La funzione della Scuola è quella di educare i cittadini secondo i principi, i valori, le tradizioni che stanno alla base della vita nazionale”, compito “particolarmente rilevante in una società isolana e isolata, come continua a essere la società sarda”.
Nello stesso documento si leggeva che la Sardegna e in particolare le sue aree interne erano socialmente arretrate, refrattarie alle istituzioni democratiche, ancorate in codici propri della “primordiale economia agricola e pastorale”, la quale doveva necessariamente essere superata per sradicare il fenomeno del banditismo. Trasformazioni economiche e un capillare intervento dello Stato: questa la formula per cambiare i pastori della Barbagia in “uomini civili e moderni”, come dichiarò il senatore democristiano in un’intervista del tempo.
La scuola sarebbe stata uno dei settori decisivi in questo progetto. Su carta, le intenzioni dello Stato in Sardegna apparivano nobili: “Bisogna mettere a disposizione di tutti i giovani della Sardegna il patrimonio culturale del mondo contemporaneo, cosicché essi lo possano confrontare con le loro esperienze e le loro tradizioni, cioè con la cultura che si è venuta elaborando nel corso dei secoli nella loro terra”. La scuola “non vuole sradicarli dal loro ambiente, ma vuole, invece, porli nelle condizioni di meglio comprenderne gli autentici valori”. E dunque: formazione culturale nazionale, senza trascurare “le specifiche esperienze storiche della regione”.
Lo Stato si arrogò il diritto di decidere che il riconoscimento dei sardi come popolo e del loro il diritto di parlare la lingua sarebbe stato “dannoso per lo sviluppo della società sarda”
La perdita della lingua
La realtà, come sappiamo, è stata ben diversa. La storia e la cultura della Sardegna – incluse le espressioni culturali tradizionalmente di interesse per le istituzioni scolastiche, come la poesia, la letteratura, il diritto – sono state tagliate fuori. La scuola italiana ha cresciuto generazioni di sarde e sardi in grado di ripetere a memoria l’elenco dei sette re di Roma ma prive di qualsiasi conoscenza sulle antichissime strutture – nuraghi, tombe dei giganti, menhir, domus de janas – sparse a migliaia nel territorio in cui vivono.
Ancora più grave, perché irreparabile, è stata la perdita della lingua. Con l’uso esclusivo dell’italiano nelle scuole, le università e la pubblica amministrazione, il sardo è stato relegato a un registro basso ed estromesso dai luoghi del potere. Intossicati dalla convinzione, indotta, dell’inferiorità del sardo e dalla speranza che l’italiano avrebbe aperto ai figli le porte di una vita migliore, tanti genitori madrelingua scelsero di non trasmettere il sardo ai giovani, comunicando con loro esclusivamente in italiano.

Oggi il sardo è classificato come lingua “sicuramente in pericolo” (definitely endangered) nell’Atlante delle Lingue in pericolo nel mondo dell’UNESCO. Ciò significa che “la lingua non viene più appresa come lingua madre dai bambini in famiglia. I parlanti più giovani appartengono quindi alla generazione dei genitori” e se “i genitori possono ancora parlare la loro lingua ai figli, di solito i figli non rispondono nella stessa lingua”.
Ma come è potuto succedere?
Solo chi non è cresciuto in Sardegna può chiedersi onestamente con stupore come questo sia stato possibile. Per chi ha studiato nelle scuole dell’isola – a parte poche enclave benedette da una comunità consapevole, come Orgosolo –, era ordinaria amministrazione che chi parlasse in sardo a scuola – magari rispondendo candidamente con “Eja” a una domanda dell’insegnante, cosa che accadeva spesso a chi proveniva da una famiglia sardofona – venisse nel migliore dei casi rimproverato, nel peggiore punito perché “siamo in Italia, devi parlare italiano”.
Ma non dovrebbe stupire neanche chi, leggendo la relazione della Commissione parlamentare, si fosse immaginato una programmatica apertura dello Stato nei confronti dell’identità sarda, poi sfortunatamente disattesa nei fatti. Il paternalismo verso una società considerata fondamentalmente inferiore e il piano di acculturazione forzata – elementi che riecheggiano le missioni civilizzatrici europee di coloniale memoria – sono tutti presenti nel documento e nel progetto, che vi è descritto, di “italianizzazione” del sardo per mezzo della scuola. Così come la preoccupazione di fondo, che si è mantenuta nelle élites intellettuali e politiche italiane di oggi: salvaguardare, prima di ogni altra cosa, l’unità dello Stato.

Il piano virtuoso di una Scuola che potesse fornire ai giovani sardi una “proposta di arricchimento culturale” senza trascurare i valori della cultura regionale aveva come scopo dichiarato quello di non “favorire le tendenze isolazioniste – particolarmente dannose per lo sviluppo della società sarda – che di recente si sono manifestate con la proposta di considerare il sardo come lingua di una minoranza etnica”.
Con questo, il senatore Medici si riferiva a una risoluzione, approvata dal Consiglio della Facoltà di Lettere dell’Università di Cagliari nel febbraio del 1971, con cui si chiedeva alla Regione e al Governo nazionale il riconoscimento della Sardegna come minoranza etnico-linguistica e del sardo come lingua naturale della minoranza. “La lingua ufficiale dello Stato (l’italiano) risulta in realtà una lingua straniera per lo più insegnata con metodi didattici errati che non tengono in alcun conto la lingua materna dei sardi; e ciò con grave pregiudizio per un’efficace trasmissione della cultura sarda, considerata come subcultura”, si leggeva nel documento. Una richiesta rimasta lettera morta.
Tramite la Commissione parlamentare d’inchiesta, lo Stato si arrogò il diritto di decidere che il riconoscimento dei sardi come popolo e del loro il diritto di parlare la lingua sarebbe stato “dannoso per lo sviluppo della società sarda” e usò la scuola per contrastare le rivendicazioni che arrivavano dall’isola in questo senso. Da allora sono passati cinquant’anni e poco è cambiato, a parte forse la consapevolezza dei sardi sulla questione e il proliferare di piccole iniziative, private o associazionistiche, per portare la cultura sarda nelle scuole. Il nazionalismo della scuola italiana non è dunque una novità per la Sardegna: quello di oggi è solo più rumoroso e non si preoccupa troppo di giustificarsi.
Con questo articolo proseguiamo l’approfondimento su nazionalismo di oggi e colonialismo, concentrandoci sul nazionalismo italiano e il suo braccio di ferro con l’identità sarda in Sardegna.










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