Cagliari, protesta per il convegno sull’archeologia israeliana: “La ricerca accademica non è neutrale”
A Cagliari un presidio studentesco contro la presenza di due docenti israeliane a congresso AIPMA, accusa Israele di usare l’archeologia per giustificare l’apartheid e le istituzioni sarde di complicità.
Un gruppo di giovani, bandiere della Palestina alla mano, è riunito a Cagliari sotto la scalinata dell’ex Regio Museo. A separarli dall’ingresso dell’antico edificio, un ampio schieramento di polizia: due camionette, una quindicina di poliziotti in borghese e altrettanti in tenuta antisommossa. È venerdì 26 settembre e l’Università di Cagliari ospita un convegno internazionale di archeologia – il XVI Congresso dell’AIPMA, Associazione Internazionale per la Pittura Murale Antica – a cui partecipano docenti e ricercatori da tutto il mondo. Sono invitate a parlare anche due docenti israeliane, le dottoresse Talila Michaeli e Silvia Rozenberg, che presentano le loro ricerche su due siti archeologici in Israele.
Quella dell’evento è una notizia che non poteva passare inosservata, considerato il comprovato uso dell’archeologia da parte dello Stato ebraico per legittimare l’occupazione delle terre palestinesi [qua il nostro focus in merito ndr]. La protesta – chiamata per l’occasione dal collettivo studentesco UniCa per la Palestina – denuncia infatti il controverso ruolo del mondo accademico nei crimini israeliani interpellando direttamente l’Università di Cagliari, le Soprintendenze e i Musei sardi sulla loro partecipazione a un evento in cui si dialoga con istituzioni che producono conoscenza strumentale all’agenda politica di Israele.
Pochi giorni dopo – il 30 settembre – l’Università approverà una mozione per interrompere (e non attivare) gli accordi di collaborazione con agenzie, istituzioni e ricercatori dello Stato di Israele compromessi con le azioni governative, “esplicitamente e dichiaratamente a favore delle azioni del governo israeliano” o “legati direttamente o indirettamente con strutture militari dello Stato di Israele”.
Ma per i manifestanti il boicottaggio deve essere più ampio e radicale, interessando tutta la produzione di conoscenza negli atenei israeliani e in particolare quella archeologica. «Siamo qui dopo due anni di genocidio a ripetere che non è possibile avere rappresentanti di università israeliane nei nostri atenei e nei nostri luoghi di studio», denunciano gli studenti. «Ironia della sorte, questo convegno è riservato all’archeologia, quando in Palestina l’archeologia è un’arma coloniale».

L’evento dell’AIPMA
L’organizzazione del congresso avrebbe deciso di vietare l’accesso agli uditori proprio nel giorno dell’intervento di Michaeli, docente all’Università di Tel Aviv. Lo riferiscono due studentesse di Archeologia presenti al presidio cui sarebbe stata negata l’iscrizione all’incontro. Una sala dell’ex Regio Museo che sarebbe quindi come raccontano i manifestanti blindata a spettatori esterni; studenti inclusi.
Una motivazione ufficiale non c’è, ma nel presidio sono in tanti a pensare a una decisione presa per evitare contestazioni, vista l’opposizione dell’opinione pubblica cittadina alle politiche di apartheid israeliane. Ma il dissenso, tra i banchi del convegno, si fa comunque sentire: una decina tra i docenti e ricercatori presenti in sala al momento della controversa presentazione si alza in piedi e lascia l’edificio in segno di protesta.
«Non sapevo fossero invitate due colleghe israeliane, altrimenti non sarei proprio venuta», racconta un’archeologa, che ha deciso di unirsi al presidio degli studenti. «E non sapevo neppure che oggi non fosse garantito a tutti l’ingresso. Com’è possibile? Questo è un organismo pubblico». «Credo sia ben documentato che Israele usa l’archeologia come mezzo per plasmare la storia», commenta una dottoranda. «La protesta non è contro gli individui: è che non è una cosa giusta, ad oggi, dare una piattaforma a queste istituzioni».
Gli scavi e le ricerche archeologiche sono strumento importante per legittimare le operazioni illegali di appropriazione dei territori
Ma se tra i partecipanti alla conferenza c’è chi si mostra cautamente solidale – «io sono d’accordo con chi protesta. Però sono lavoratrice della cultura e spero che la cultura serva a unire» – la risposta di altri ricercatori è chiara: «Si può fare cultura solo quando si permette a tutti di farla». E l’archeologia non è permessa ai palestinesi. Anzi. Nello Stato ebraico gli scavi e le ricerche archeologiche sono strumento importante per legittimare le operazioni illegali di appropriazione dei territori e sostituzione etnica della popolazione palestinese, sulla base del principio del “diritto al ritorno” degli ebrei nella Terra Promessa.
L’archeologia a strumento di Israele
Fin dalla fondazione dello Stato ebraico, l’archeologia è stata usata per dimostrare che quelle terre erano l’antico “Regno di Israele” raccontato nella Bibbia – occupate, dopo l’esodo, da popolazioni arabe – a cui gli ebrei contemporanei avrebbero oggi diritto di ritornare. Ne consegue che uno degli obiettivi principali della ricerca archeologica in Israele è quello di “trovare” le prove dell’esistenza del Regno di Israele nel sottosuolo della Palestina e nei suoi reperti archeologici. Questa operazione va avanti ormai da più di settant’anni; ma sulle numerose prove apportate, che dimostrerebbero la reale estensione del mitico Israele, concordano solo gli archeologi israeliani.

La ricercatrice Talila Michaeli ha presentato uno studio sulle pitture rupestri delle tombe romane di Ashkelon, città portuale in Israele che dista meno di 10 chilometri dalla Striscia di Gaza. Fino al 1948, Ashkelon non esisteva. Il suo nome era Majdal: una città abitata prevalentemente da musulmani, con una piccola comunità cristiana. Nel 1948, Majdal fu tra i più di 500 villaggi palestinesi conquistati da Israele: con la Nakba – la “catastrofe” –, 800.000 arabi palestinesi furono costretti a un esodo di massa e le loro terre convertite nei territori dello Stato di Israele. Majdal fu rasa al suolo.
Nel suo La pulizia etnica della Palestina, lo storico israeliano Ilan Pappè racconta la nascita di Israele come una minuziosa operazione di riscrittura della storia, in cui centrale fu la distruzione degli abitati palestinesi, la creazione di nuovi insediamenti ebraici e una capillare sostituzione dei nomi dei luoghi – al tempo in lingua araba – con nomi ebraici, spesso tratti dalla Bibbia. Obiettivo? “De-Arabizzare il territorio – i suoi nomi e la sua geografia, ma soprattutto la sua storia”. In un articolo scientifico del 2008, Michaeli scriveva che lo studio “contribuirà a collocare la tomba nel quadro della pittura muraria di epoca romana nel bacino del Mediterraneo e in Israele in particolare”. Eppure quel sito archeologico è “in Israele” da soli 77 anni.
Pappé scrive che l’obiettivo di riscrivere la storia nei territori conquistati nel 1948 è stato raggiunto da Israele solo “grazie all’aiuto degli archeologi e degli esperti di studi biblici che si offrirono volontari per far parte del cosiddetto Comitato per la Denominazione, il cui ruolo era ebraicizzare la geografia della Palestina”. Questi studiosi e accademici si impegnarono con grande “zelo archeologico per riprodurre la mappa dell’Antico Israele”. Il grande lavoro di “reinvenzione” di quella che era la Palestina è stato quindi compartecipato: a livello politico, militare e accademico.

“Uno Stato che distrugge la cultura del popolo palestinese”
Ad oggi questo sforzo continua, in modo ancora più palese ai confini dello Stato, per il bisogno di giustificarne la continua espansione. L’altra studiosa israeliana invitata a parlare all’Ex Teatro Regio, Silvia Rozenberg della Hebrew University di Gerusalemme, presentava una ricerca sulle pitture rupestri di Omrit: un sito archeologico sulle alture siriane del Golan, occupate da Israele, che oggi lo Stato ebraico considera parte del proprio territorio nazionale.
L’archeologia in Israele asserisce senza dubbio che Omrit era un antico tempio costruito da Erode il Grande, re di Giudea: un ritrovamento davvero opportuno che giustifica le conquiste israeliane in Siria facendo coincidere gli attuali confini dello Stato ebraico con quelli antichi della Galilea biblica. È difficile ritenere credibile qualsiasi ricerca condotta da accademici israeliani in un sito archeologico così “caldo” per l’agenda politica dello Stato.
«È ironico che l’Università di Cagliari, uno spazio riservato alla cultura e all’archeologia, che è una materia fondamentale in Sardegna, accetti di ospitare rappresentanti di uno Stato che distrugge la cultura del popolo palestinese, ogni segno che i palestinesi sono vissuti nella loro terra», denunciano studenti e studentesse riuniti in presidio. Anche se si tratta di un convegno internazionale, «l’Università di Cagliari ha concesso gli spazi e queste professoresse sono state salutate con tutti gli onori dal Magnifico Rettore».
A quasi due anni dall’inizio del genocidio, le istituzioni universitarie sono ancora invitate a riconoscere che non c’è niente di neutrale nella ricerca accademica; anche in quelle materie che sono apparentemente lontane dall’ambito militare e geopolitico; specialmente l’archeologia.










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