13 Ottobre 2025 | Tempo lettura: 6 minuti
Guide / Comunità Energetiche Rinnovabili

Sardegna, isola di sole e vento. Ma perché le comunità energetiche qui sono così poche?

Primo appuntamento dell’indagine sulle comunità energetiche a cura di Maurizio Onnis. Le CER sono una grande opportunità eppure sull’isola se ne contano solo 20. Perché?

Autore: Maurizio Onnis
CER comunità energetiche rinnovabili
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Le comunità energetiche costituiscono un argomento fondamentale, all’ordine del giorno e che tocca più punti essenziali. Parlarne significa parlare di transizione energetica ed ecologica, partecipazione e scelta popolare, democratizzazione della produzione e del mercato energetico. Soprattutto per la Sardegna, significa parlare della grande ricchezza in vento e sole tipica dell’Isola: una ricchezza da mettere a frutto a vantaggio dei sardi e non della speculazione. Le comunità energetiche ci offrono insomma un tema al crocevia di molte questioni cruciali per il nostro presente e il nostro futuro.

Le Comunità energetiche rinnovabili in Sardegna

Per entrare subito in argomento basta accedere al portale del GSE: il Gestore dei servizi energetici, la società per azioni in mano statale che si occupa tra le altre cose di registrare le comunità energetiche e distribuire loro gli incentivi. Nel sito, si trova l’elenco delle comunità energetiche rinnovabili (CER) attive oggi in Italia. Attive significa appunto registrate dallo stesso GSE: solo in questo modo infatti si è riconosciuti dalla legge, si può vendere l’energia prodotta alla rete e si possono incassare i premi. Chi ancora è nel mezzo delle procedure, magari da anni, magari dopo aver speso tempo e risorse, ma non è ancora registrato, ufficialmente non “esiste”.

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Rinnovabili – immagine di repertorio Canva

L’ultimo aggiornamento in piattaforma è datato 31 maggio 2025. In tutta Italia erano attive 421 comunità energetiche. Di queste esattamente 20 si trovano in Sardegna. 20 CER per la nostra Isola. Vediamole più da vicino. Sono, com’è ovvio, disperse sul territorio: da Cagliari a Sassari, da Villanovaforru a Sorso, da Tula a Bolotana, fino a comporre una geografia alquanto varia. La maggior parte è molto piccola. Si va dalle 3 utenze legate alla CER di Lula, per 4 kW di potenza installati, alle 48 utenze della CER di Ussaramanna, per 60 kW di potenza: nel mezzo, un pulviscolo di altre comunità da pochi o poche decine di kW.

Fanno eccezione tre Comunità energetiche rinnovabili più grosse: quelle di piazza Medaglia Miracolosa di Cagliari (109 kW), Tula (989 kW) e Assemini (992 kW). Queste ultime due nascono con ogni probabilità da un’aggregazione di privati – un punto su cui torneremo. Interessa adesso sottolineare che tutte assieme, comprese le più corpose, le comunità energetiche sarde mettono insieme circa 2,5 MW di potenza, una quantità che entra oltre due volte in una sola delle pale eoliche da 6 MW che le multinazionali puntano a installare in Sardegna.

Perché le comunità energetiche sarde sono così poche?

Una sola, delle moltissime in progetto per il nostro territorio. Il che significa che le CER sarde producono spiccioli di elettricità e sono appena una goccia nel mare del panorama energetico isolano. Siamo cioè davanti a un fenomeno che ancora si muove su scala ridottissima.

Il primo problema: trovare i soldi

Perché le comunità energetiche sarde sono così poche? Affronto il tema da questo punto di vista dato che, a mio parere, è oggi il più importante: se non si abbattono le barriere d’ingresso alle CER infatti, le Comunità Energetiche Rinnovabili non si diffonderanno mai a sufficienza e non potranno contribuire né alla transizione ecologica né alla democratizzazione del mercato energetico. A tale riguardo, consideriamo che la barriera d’ingresso più alta è costituita dai soldi, dall’investimento necessario a installare un impianto per la produzione di elettricità da fonte rinnovabile. Sicuramente una barriera quasi insormontabile per il Comune, per l’ente pubblico.

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Immagine di repertorio Canva

Si può ancora partecipare, in proposito, al bando del PNRR per le comunità energetiche aperto nella primavera del 2024. Doveva chiudere entro un anno, ma è stato prorogato sino alla fine del 2025, nella speranza che aderissero più municipi possibile. Il motivo dello scarso successo sta nei termini del bando: fino al 40% del finanziamento a fondo perduto, il restante 60% o più da cercare in altro modo. Mettetevi nei panni di un sindaco che ha bisogno, per creare una CER con 200 o 300 famiglie, di diverse centinaia di migliaia di euro: chiede un prestito in banca? Esita, naturalmente – se ha un po’ di senno – perché non vuole lasciare un debito ai suoi successori.

E sa, tra l’altro, che il cofinanziamento da parte dello Stato abbatte l’incentivo: se ti fai dare da Roma il 20% o il 30% dei soldi che ti servono, il GSE decurterà di una quota analoga i tuoi premi. Non il massimo. A questa difficoltà se ne aggiunge un’altra, che in Sardegna percepiamo particolarmente. Il Comune che voglia finanziare un impianto per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili deve svolgere tutti i lavori attraverso il prezziario regionale. E il prezziario regionale genera costi due o tre volte superiori a quelli che si avrebbero agendo sul mercato libero.

È una cosa insensata, che rende il progetto del tutto antieconomico per l’ente pubblico, persino se trovasse i soldi nel proprio bilancio, ad esempio nell’avanzo di amministrazione. Perché spendere una montagna di denaro quando se ne può fare a meno?

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Rinnovabili – immagine di repertorio Canva

Prima conclusione: la CER è un compito dei privati

Arriviamo così a una prima conclusione netta. La creazione di una CER, oggi, non è alla portata di un Comune. Il Comune può, e anzi deve, svolgere il ruolo del facilitatore, altrettanto importante del ruolo del finanziatore: significa comunicare ai cittadini i benefici materiali e ambientali che vengono dalla comunità energetica, perché siano essi ad attivarsi e crearne una. Si chiama “autoconsumo collettivo” ed è un altro nome della CER.

I condomini nel grosso caseggiato di città, i piccoli imprenditori della zona artigianale di un paese, i negozianti di un centro commerciale: si mettono assieme e investono il denaro necessario all’impianto. Lo fanno sulla base di uno studio di fattibilità razionale e nella certezza che, una volta recuperati i costi dell’investimento, gli incentivi permetteranno loro di guadagnare. Gli incentivi, infatti, durano vent’anni ed è possibile fare calcoli abbastanza precisi del ritorno economico prospettato da un’operazione del genere.

Il che ci porta alla seconda domanda fondamentale: quali vantaggi, economici e non solo, devono spingere i cittadini a fondare una CER? Devono esserci e devono essere ben individuabili: in caso contrario, l’autoconsumo collettivo non si diffonde. È un tema che affronteremo estesamente nella seconda parte di questa piccola indagine.  

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