22 Ottobre 2025 | Tempo lettura: 8 minuti

Le orchestre del potere: quando la musica diventa strumento di consenso (e qualcuno dice no)

Una riflessione che guarda alla musica e al suo ruolo nel palcoscenico del reale, tra manipolazioni svilenti e contrapposte prese di posizione (anche) politiche in nome di una cultura che non può che essere universale.

Autore: Francesca Mulas
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La guerra, oggi, non si fa solo con le armi ma anche con le locandine dei teatri, con i nomi che spariscono dai cartelloni all’ultimo e con le nomine che cadono dall’alto tipo sentenza del tribunale. Ogni direttore d’orchestra si porta dietro una biografia che può esplodere da un momento all’altro, ogni teatro è diventato territorio di conquista per la politica, ogni festival un groviglio di interessi dove la musica finisce per essere l’ultima delle preoccupazioni.

E chi ancora va in giro a dire che la cultura deve restare “neutra” o mente sapendo di mentire, o davvero non ha capito come funzionano le cose. Quest’anno passerà alla storia come quello in cui la musica ha smesso di essere solo suono per diventare termometro della salute democratica del Paese, e la Sardegna si è ritrovata al centro di questo terremoto.

I casi Gergiev e Venezi

Estate scorsa, alla Reggia di Caserta, si preparava uno di quei concerti che piacciono tanto ai politici: grandi numeri, belle foto per i giornali, tanta retorica. Sul podio doveva salire Valery Gergiev, direttore d’orchestra russo, sodale di Vladimir Putin, protagonista di concerti celebrativi in Crimea e a Mariupol dopo l’invasione. L’idea – secondo gli organizzatori – era un “gesto di dialogo culturale”, peccato che bastino cinque minuti su Google per capire chi è Gergiev e cosa rappresenta. Quando se n’è accorta la stampa internazionale è partito il finimondo, con Guardian e Reuters che hanno titolato sull'”imbarazzo italiano” mentre arrivavano sedicimila firme per bloccare tutto.

Il Ministero ha balbettato qualcosa sul “tempismo infelice”, il governatore campano ha provato la difesa d’ufficio: “La musica unisce, non divide”. Risultato: concerto annullato per “motivi organizzativi”. La pressione internazionale aveva costretto a fare marcia indietro. Ma Gergiev non è un incidente di percorso, è il sintomo di un problema molto più grosso: quando la cultura italiana si trova davanti al potere fa la riverenza, davanti ai dittatori come davanti ai ministri, davanti a chiunque prometta soldi o visibilità. E la politica, dal canto suo, spesso usa i teatri come vetrine elettorali, posti dove costruire consenso senza doversi sporcare troppo le mani con le scelte.

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Immagine di repertorio Canva

In autunno, al Teatro La Fenice di Venezia, arriva la nomina di Beatrice Venezi come direttrice musicale per i prossimi cinque anni, e scoppia il putiferio. L’orchestra scrive una lettera durissima, i sindacati denunciano “pressioni da Roma”, in Parlamento presentano interrogazioni, finché il sindaco Brugnaro ammette con una sincerità quasi disarmante: “Qualche influenza politica ci sarà stata, come sempre”. Ecco, “come sempre” è la frase chiave, perché in Italia ormai è normale che le nomine culturali passino dalle segreterie di partito invece che dalle sale prove.

Il punto non è nemmeno tanto la politica in sé, quanto il fatto che gli orchestrali della Fenice – gente che di musica ne capisce, che passa le giornate a sudare su Stravinskij e Verdi – hanno guardato il curriculum di Venezi e hanno detto “scusate, ma qui qualcosa non torna”. Nella loro lettera scrivono: “Il Direttore Venezi non ha mai diretto né un titolo d’opera né un concerto sinfonico pubblico in cartellone alla Fenice. Il suo curriculum non è minimamente paragonabile a quello delle grandi bacchette che, in passato, hanno ricoperto questo ruolo”.

Il 17 ottobre gli orchestrali hanno scioperato mandando a monte la prima del “Wozzeck”, un gesto pesantissimo a cui Venezi ha risposto assumendo Giulia Bongiorno per difendere “immagine e professionalità”. Legittimo, per carità, ma se un’orchestra intera ti rifiuta prima ancora che tu inizi a lavorare, forse il problema non è solo di comunicazione.

Nel Golfo Mistico sardo

E arriviamo alla Sardegna, dove la Fistel Cisl del Teatro Lirico di Cagliari si è schierata subito con i colleghi veneziani. Il comunicato è durissimo: “Nessuno più di noi può testimoniare quanto sia pericolosa per un Teatro una guida inadeguata, foriera di ostilità con i lavoratori, con le organizzazioni sindacali e persino con il pubblico”, “la vostra lotta è stata la nostra lotta” e l’invito ai colleghi veneziani è a resistere “per garantire trasparenza, partecipazione e centralità dell’arte contro logiche di partito e personalismi”. Non servono altri commenti: le loro parole dicono tutto.

Quando la politica mette le mani sulla cultura e decide chi sale sul podio e chi no, la musica diventa strumento di potere invece che di libertà

Ma c’è un altro dettaglio che vale la pena raccontare: Venezi doveva dirigere la “Salome” di Strauss a Sassari il 7 e 9 novembre, opera difficile che richiede una bacchetta solida, ma alla fine sulla locandina è comparso un altro nome: Federico Santi. Nessun comunicato, nessuna spiegazione ufficiale, solo una sostituzione silenziosa che forse dice più di mille parole. Problemi di agenda? Scelte artistiche dell’ultimo minuto? O qualcuno anche a Sassari ha fatto due più due? Due storie diverse – Gergiev e Venezi – ma con lo stesso meccanismo di fondo: quando la politica mette le mani sulla cultura decide chi sale sul podio e chi no, e la musica diventa strumento di potere invece che di libertà

No Music for Genocide

Nel frattempo, a Gaza i morti sono oltre sessantacinquemila, migliaia di bambini. Le immagini arrivano ovunque ma nei teatri italiani regna il silenzio. C’è una campagna internazionale, No Music for Genocide, che da settembre 2025 chiede agli artisti di geo-bloccare la propria musica dalle piattaforme streaming in Israele finché dura il massacro. Un movimento che si ispira ai boicottaggi culturali contro l’apartheid sudafricano negli anni Ottanta e che pone una domanda semplice ma devastante: perché nel giro di pochi mesi dall’invasione russa dell’Ucraina tutte le major discografiche – Sony, Universal, Warner – hanno rimosso i loro cataloghi dalla Russia, mentre dopo oltre un anno di operazioni a Gaza non è stata presa nessuna misura contro Israele?

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Cagliari, corteo per la Palestina

In Italia? Piero Pelù e Mannarino hanno manifestato pubblicamente il loro dissenso verso Daniel Ek, il CEO di Spotify che ha investito 600 milioni di euro in Helsing, società di intelligenza artificiale militare che produce droni e tecnologie per velivoli da combattimento. Ma i loro brani restano disponibili sulla piattaforma: la decisione finale spetta alle major discografiche che detengono i diritti, e per ora non hanno seguito la linea dura dei Massive Attack, che hanno chiesto formalmente alla loro etichetta Universal Music la rimozione di tutta la loro musica da Spotify. “Il peso economico che da tempo grava sugli artisti si somma ora a un peso morale ed etico”, hanno scritto i Massive Attack. “I fan finanziano, senza saperlo, tecnologie letali e distopiche”.

Il problema è sempre lo stesso: in un mercato dominato da colossi come Universal, Sony e Warner, gli artisti hanno ben poco controllo sul proprio catalogo. Possono prendere posizione, possono protestare, ma alla fine sono le major a decidere. E le major, per ora, preferiscono non decidere. I teatri fanno finta di niente, le fondazioni pure, i direttori d’orchestra idem. Si continua a dire “l’arte è un ponte di pace”, ma senza chiedersi chi sta cadendo da quel ponte.

Qualcuno però rompe il silenzio, ogni tanto, e viene punito. Ghali lo sa benissimo. La sua colpa? Aver chiesto a Sanremo 2024 lo “stop al genocidio” e un minuto di silenzio per le vittime palestinesi durante un’esibizione a Milano. “Sono stato punito”, ha detto senza mezzi termini. In un lungo post su Instagram ha scritto parole ancora più dure: “Deluso da tanti artisti italiani che hanno la penna per dire qualcosa. Tutti piegati dalla paura di essere tagliati fuori. Mi sono circondato per anni di persone che non immaginavo sarebbero rimaste in silenzio di fronte al genocidio in Palestina”.

Nel campo della musica classica, abbiamo un caso eclatante. Metà settembre, ai BBC Proms alla Royal Albert Hall, il direttore d’orchestra israeliano Ilan Volkov interrompe il protocollo e prende la parola: “Vengo da Israele, lo amo, è casa mia. Ma quello che sta succedendo ora è atroce su una scala inimmaginabile. Palestinesi innocenti vengono uccisi a migliaia. Israeliani, ebrei e palestinesi non possiamo fermare tutto questo da soli. Vi supplico, fate qualcosa per fermare questa follia“. Pochi giorni dopo lo arrestano mentre marcia verso il confine di Gaza. Lo rilasciano dopo qualche ora, ma il gesto resta: un direttore israeliano che chiama le cose col loro nome.

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Frame di Ghali mentre sventola in concerto la bandiera palestinese

La musica che rivela

In Sardegna, invece? Una volta è successo qualcosa, almeno una. Fine settembre, alla rassegna “Rotte Sonore” del Teatro Carmen Melis di Cagliari, un gruppo di musicisti legge dal palco un messaggio di solidarietà al popolo palestinese. Niente di eclatante, poche righe lette tra un brano e l’altro. Sul podio c’è un direttore israeliano, Nir Kabaretti, che non interrompe, non protesta. Chiude il concerto con l'”Agnus Dei” di Barber e lo dedica “a tutte le vittime della guerra, senza bandiere”. Nessuno scandalo, nessun comunicato, nessuna polemica. Un gesto piccolo ma che dice tutto: si può prendere posizione anche solo scegliendo cosa suonare e a chi dedicarlo.

La censura italiana non vieta, premia. Ti premia se taci, se non esageri, ti suggerisce che certe cose “non è il momento di dirle”. È una censura che sorride, ti stringe la mano, promette finanziamenti e coproduzioni. La più efficace, perché non lascia martiri. In Sardegna i meccanismi sono gli stessi, ma qualcosa resiste. Il comunicato della Fistel Cisl lo dimostra: “La vostra lotta è stata la nostra lotta”. La sostituzione silenziosa di Venezi a Sassari pure e il gesto al Carmen Melis è la prova che un’altra strada esiste. La musica non è fatta per tranquillizzare, è fatta per rivelare. E finché ci sarà qualcuno disposto a stonare, a disturbare, a respirare controvento, questa sinfonia non sarà ancora finita.