Myanmar: dopo decenni di sangue è il momento della transizione democratica?
Dai colpi di Stato militari al genocidio “dimenticato” dei Rohingya, sin dalla sua fondazione il Myanmar è caratterizzato da scontri e conflitti. Ma forse la svolta si sta avvicinando.
La logica multipolare del nuovo ordine mondiale sta rapidamente ridisegnando gli equilibri di potere in un incerto confronto fra forze che compromette inevitabilmente la stabilità internazionale, generando o amplificando una moltitudine di crisi regionali – la cosiddetta “terza guerra mondiale a pezzi”, per dirla con le parole di Bergoglio. A pagare il prezzo di questo assestamento sono molto spesso popolazioni o minoranze, categorie deboli, cinicamente stritolate da logiche di forza fuori dal loro controllo e spesso dalla loro comprensione. Da Gaza al Congo orientale, dal Sudan al Sahel, si intersecano crisi politiche e umanitarie, spesso inestricabili, in una rimodulazione di equilibri tutta da pronosticare.
Una delle più gravi e persistenti crisi attualmente in corso è sicuramente quella del Myanmar, esteso Paese asiatico diviso fra il delta del Gange e la penisola indocinese. Culla di grandi dinastie, sottomessa per un breve periodo solo all’inarrestabile dominio mongolo e fieramente opposta per lungo tempo all’indesiderata attenzione cinese, la Birmania – così si è chiamata fino al 1989, dal nome dell’etnia largamente prevalente bamar o birmani – soccombe all’Impero Britannico nel 1824.
Il dominio inglese in Myanmar – ad eccezione di una breve parentesi durante la Seconda guerra mondiale, in cui viene inglobata dall’impeto imperiale del Giappone – è sostanzialmente ininterrotto fino al 1948, quando, dopo una breve transizione, il Paese guadagna la sua indipendenza. Il territorio è però fortemente parcellizzato in una varietà di entità etnico-linguistiche con forte identità e profondo radicamento nel territorio – le loro immediate pretese quanto meno di una autonomia parziale nell’ambito di un sistema federale portano presto allo scontro con il governo della capitale Yangoon, impostato sul modello graniticamente centralizzato dell’amministrazione coloniale britannica.

Diversi governi civili si succedono fino al 1962, quando un colpo di stato mette il potere nelle mani dei militari e avvia un esercizio fortemente repressivo. Voce e volto del popolo sottomesso è per anni l’attivista Aung San Suu Kyi, figlia del padre della patria Aung San e unica oppositrice al regime militare. Il governo predispone l’arresto della leader nonostante il suo partito, la Lega nazionale per la democrazia (LND), vinca nel 1990 le prime elezioni in Myanmar tenute da molti anni, ma la giunta militare rifiuta di riconoscerne l’esito quasi plebiscitario e si mantiene al potere.
La crescente pressione internazionale e una situazione interna sempre più complessa da gestire inducono la giunta riaprire le urne nel 2010. Con uno stratagemma inserito nella costituzione promulgata nel 2008, tuttavia, Aung San Suu Kyi viene neutralizzata e il governo, benchè democraticamente eletto, è sotto il totale controllo della giunta. Nuove elezioni si tengono nel 2015, quando l’attivista e il suo partito concorrono e vincono con largo margine, inaugurando probabilmente il primo governo realmente prodotto da una scelta popolare nella storia del Paese.
La parziale collusione con la giunta militare è però inevitabile – uno degli artifizi costituzionali è l’obbligo di riservare il 25% dei seggi del parlamento a personale militare. La posizione di Aung San Suu Kyi si è compromessa nel 2017, quando la leader de facto del Paese ha difeso la condotta adottata dall’esercito nei confronti della consistente minoranza Rohingya – gruppo etnico di confessione islamica stanziato nel nord del Rakhine State. La postura violentemente repressiva e finanche genocidaria dell’esercito ha reclamato migliaia di vite e spinto alla fuga i Rohingya, ricollocati altrove nella regione o accolti come rifugiati dal confinante Bangladesh.
Il Primo Febbraio 2021 infine la situazione in Myanmar subisce un improvviso tracollo: l’esercito contesta la legittimità delle elezioni che nel 2020 hanno confermato l’LND alla guida del Paese e provvede ad arrestare Aung San Suu Kyi e perfezione il colpo di Stato con cui si insedia nuovamente al governo – è il principio della guerra civile birmana, che tuttora imperversa nel Paese.

Il Myanmar ha una storia molto antica, ma è indipendente solo dal 1948. La sua popolazione – 54 milioni – è di poco inferiore a quella italiana ed è divisa in diversi gruppi etnici, dai Karen alla minoranza vittima di forti repressioni dei Rohingya. L’ultima fase della guerra civile ha provocato 6000 morti civili e più di 3 milioni di sfollati dal 2021.
L’opposizione al regime si divide in due principali fazioni, con presupposti di ingaggio molto differenti fra loro: le Ethnic armed organizations (EAO) – una molteplicità di gruppi di azione in rappresentanza delle rivendicazioni delle varie etnie che compongono la popolazione e che soccombono alla prevalenza dei bamar – e le People’s defense forces (PDF) – veri e propri gruppi di resistenza al regime della giunta, attivi con lo scopo di rovesciare il governo militare e impostare una transizione democratica con un corso definitivo.
La disorganizzazione e la mancanza di coralità fra le molteplici fazioni in gioco – occasionalmente addirittura ostili fra loro – ha reso inizialmente inefficace la lotta al regime, ma con il passare dei mesi l’esperienza sul campo, il rapido aumento degli arruolamenti nelle truppe di resistenza – scelta, questa, molto popolare fra rifugiati eradicati dai villaggi obliterati dall’esercito –, l’acquisizione di competenze strategiche e tecnologiche sempre maggiori, hanno ridotto il divario fra gli attori.
Alla fine del 2023 l’operazione denominata 1027, intrapresa da una coalizione formata da tre gruppi d’azione afferenti alle EOA, ha permesso agli oppositori di scalzare l’esercito regolare da numerose e preziose posizioni nel nord-est del Paese, imprimendo al conflitto un’inerzia del tutto favorevole ai ribelli. I raid dell’aviazione sono ormai l’unico – distruttivo – elemento di superiorità che la giunta può opporre alla guerriglia, la quale, da parte sua, ha esteso il proprio controllo su buona parte del territorio nazionale, lasciando al regime il dominio di appena un terzo dello stesso – incluse, tuttavia, le grandi città del Paese Yangoon, la nuova capitale Naypyidaw e Mandalay.
Si aggiunga che la coscrizione obbligatoria imposta dal governo centrale è sintomo di una profonda crisi di autorità della giunta militare, provvedimento peraltro dall’utilità rivedibile, poiché molti cittadini, coattivamente obbligati alla chiamata, hanno preferito arruolarsi nelle varie fazioni paramilitari ostili al regime, andandone a sancire in maniera perentoria il netto sovrannumero rispetto alle truppe regolari. Molti analisti pronosticano una prossima capitolazione del regime militare e una nuova, forse definitiva, transizione democratica – un nuovo e positivo scenario nel multiforme riallineamento globale.
Vuoi approfondire?
Ecco alcune campagne per sostenere la popolazione del Myanmar:
- Progetto di imprenditoria femminile di ActionAid
- Save The Children per le vittime del recente terremoto
- Report di Amnesty International sulle violazioni dei diritti umani nel 2024 in Myanmar
- Progetti di emergenza di AVSI









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