Comunità energetica rinnovabile: vantaggi e svantaggi, quali sono?
Secondo appuntamento dell’indagine a cura di Maurizio Onnis, tra opportunità economiche, ambientali e politiche della comunità energetica.
Riprendiamo il discorso da dove lo avevamo lasciato nel pezzo precedente – puoi leggerlo qui –, indagando le opportunità che dovrebbero spingere i cittadini a unirsi per creare una comunità energetica rinnovabile. Possiamo sommariamente dividere tali opportunità in tre gruppi: economiche, ambientali e “politiche”. Adesso le esamineremo gruppo per gruppo.
Soldi sì, ma pochi
All’inizio del 2021, ormai quasi cinque anni fa, tutti i tecnici interpellati dicevano che aderire a una CER avrebbe permesso a ogni socio di risparmiare circa il 25% sui costi della bolletta elettrica. Una prospettiva affascinante, un “gancio” più che sufficiente ad attirare i cittadini e convincerli ad aderire. Tanto più che, almeno nel caso della comunità di Villanovaforru, le spese relative a impianto e costituzione della CER furono interamente sostenute dal Comune. Oggi, basandoci sull’esperienza di due anni e mezzo di vita contabile della nostra CER e sui riscontri avuti da altre comunità, possiamo dire con cognizione di causa che il risparmio si aggira sul 10%.
Passo indietro per una precisazione indispensabile. La CER di Villanovaforru è un’associazione ente del terzo settore: nel costituirla abbiamo cioè scelto la forma giuridica più semplice e adatta ai bisogni dei cittadini. La legge però non riconosce alle associazioni il diritto di ridistribuire ai soci tutto ciò che entra nelle casse della comunità. Che vuol dire?

Facciamo un altro passo indietro, sempre per capirci. Il denaro incassato dalla CER viene grosso modo da due fonti diverse: gli incentivi e la vendita dell’energia alla rete. La legge consente alle associazioni la ripartizione tra i soci degli incentivi, ma non della vendita. Perché sia consentita la ripartizione anche della vendita è necessario costituirsi in cooperativa: in questo caso il risparmio sulla bolletta crescerebbe fino al 20%. Sempre, specifichiamolo ancora, nel caso che ad accollarsi le spese sia l’ente locale. Ma le cooperative hanno organizzazione, obblighi e incombenze gestionali del tutto diversi da quelli di un’associazione e si capisce quanto sia difficile anche solo intavolare un discorso del genere.
Nel caso poi in cui l’investimento sia finanziato dai cittadini stessi, ad esempio il gruppo di imprenditori di una città-mercato, il guadagno arriverà solo al termine del periodo necessario a recuperare, attraverso incentivi e vendita dell’energia, l’investimento fatto. Risultato: i soldi non sono più il punto principale. Molti infatti giudicano che non valga la pena darsi da fare per un risparmio così esiguo o lontano nel tempo. Tanto lavoro e guadagno limitato: troppo poco per invogliare a muoversi.
Transizione ecologia, un giorno, forse
Passiamo alla questione ambientale. La prima cosa da ricordare in tema è che la trasmissione di energia dall’impianto della comunità energetica ai soci è una trasmissione virtuale. Chi ha un impianto fotovoltaico sul tetto di casa usufruisce immediatamente dell’energia che quei pannelli producono, con una trasmissione fisica. Per le CER il discorso è diverso: anche qui, spieghiamoci passo per passo.

L’impianto della comunità produce energia. L’energia va in rete. I soci della comunità si trovano tutti sotto la stessa cabina elettrica primaria e possono abitare anche a grande distanza l’uno dall’altro e dall’impianto della CER. Per i loro consumi quindi prelevano l’energia dalla rete, come hanno sempre fatto. E come sempre ricevono dal proprio fornitore la bolletta, che pagano. Alla fine dell’anno, il GSE calcola quanta energia è stata prodotta dall’impianto della CER e quanta energia hanno consumato i soci della comunità. Su questa base calcola gli incentivi, che sono tanto più alti quanto più la quota di autoconsumo è vicina alla quota di autoproduzione.
A seguire, versa sul conto della CER il denaro, che il presidente dell’associazione divide tra i soci secondo i criteri stabiliti in assemblea: ad esempio, in misura proporzionale ai consumi di ciascuno. Per questo diciamo che lo scambio di energia favorito dalla comunità energetica è uno scambio virtuale e non fisico.
Che cosa comporta tutto ciò per l’ambiente? Mettiamola così: se fossimo sicuri che per ogni kW prodotto dall’impianto della CER viene “spento” un kW prodotto dai combustibili fossili, potremmo dire che le comunità energetiche contribuiscono realmente alla transizione energetica ed ecologica. Ma questo non avviene. Anzi, per quel che sappiamo, oggi l’energia prodotta dalla CER si somma semplicemente a quella prodotta dalle altre fonti, comprese le fonti non rinnovabili, i cui consumi sono globalmente in crescita e il cui “spegnimento”, in Sardegna, non è ancora alle viste.
Che cosa dovrebbe spingere i cittadini a raccogliersi in comunità energetica?
Ma ne vale comunque la pena
Insomma, né le opportunità economiche né le opportunità ambientali appaiono al momento abbastanza mature da spingere i cittadini a costituirsi in comunità energetica. E i risultati si vedono nello scarsissimo numero di CER presenti sul territorio. Passiamo perciò a quelle che abbiamo chiamato opportunità “politiche”. Creare una comunità energetica significa, in sostanza, radunare i cittadini attorno a un tavolo e spingerli a discutere di una questione che li riguarda tutti, li riguarda ogni giorno e li riguarderà sempre: l’energia.
Significa per i cittadini, in un posto come la Sardegna, dove la “gente” è abituata a farsi passare sopra la testa qualsiasi cosa, prendere decisioni su una questione cruciale per il loro futuro, sottraendo quel potere decisionale ad altri. Significa passare da un modello verticale, in cui abbiamo un grande produttore di elettricità e, sotto di lui, una miriade di consumatori divisi che non si conoscono e privi di qualsiasi potere, a un modello orizzontale, in cui tutti producono, consumano e compiono insieme le scelte fondamentali su quella produzione e sul quel consumo.

Ma non solo. Ricordiamo che la direttiva europea del 2018 su cui è basato l’intero discorso delle comunità energetiche ordina agli Stati membri di favorire in ogni modo l’autoproduzione, l’autoconsumo, lo stoccaggio e la vendita di energia da parte dei cittadini. La “vendita”: i cittadini possono cioè diventare parte attiva, protagonisti del mercato dell’energia. Ed è questo l’obiettivo ultimo: creare grandi impianti collettivi che permettano ai soci di dare elettricità a un gran numero di persone, calmierare i costi dell’energia e scavalcare le grandi compagnie del settore.
Ma perché costituire una comunità energetica?
Torniamo dunque alla domanda iniziale e facciamo così anche un bilancio: che cosa dovrebbe spingere i cittadini a raccogliersi in comunità energetica? Non i soldi: con le attuali leggi, almeno in Italia, sono troppo pochi per rendere appetibile lo sforzo. Non l’ambiente: per come vanno le cose, le CER oggi rappresentano solo una foglia di fico della politica, che le cita a proposito e a sproposito ma non fa mai davvero quel che serve per renderle l’avanguardia della transizione ecologica. Bensì la “politica”, intesa come partecipazione democratica e opportunità, per uomini e donne comuni, di rovesciare il paradigma dominante: non più energia per fare profitto, ma energia per una maggiore condivisione e giustizia.










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