28 Luglio 2025 | Tempo lettura: 6 minuti

S’Acabadora, oltre l’illusione: tra fine vita, mito e colonialismo culturale

Nel dibattito contemporaneo sul fine vita, la figura de s’acabadora riemerge come simbolo frainteso e spesso strumentalizzato.

Autore: Marta Serra
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In questo doveroso dibattito sul fine vita leggiamo spesso riferimenti a s’acabadora, figura controversa, sdoganata e abusata nel linguaggio comune, ma dai contorni chiari e specifici nel contesto culturale di riferimento. Anche in questo caso l’immaginario attorno ad essa risente del conflitto tra cultura italiana egemone e cultura sarda subalterna. Il frutto di questa colonizzazione ideologica e culturale pone le sue basi sul mito ottocentesco della Sardegna selvaggia. Un gioco di specchi riflessi che genera illusione e imprudenza sul grande tema della ciclicità dell’esistenza.

Demonizzazione sistematica del femminile

Come già detto in altre occasioni per altre figure femminili della mitologia sarda, per analizzare e contestualizzare il modello antropologico di riferimento de s’acabadora è necessario fermarsi a comprendere prima di tutto quali siano i contorni dell’essere mitologico in questione. Già l’etimo del nome ci parla chiaramente di un titolo dal sapore iberico che presumibilmente inizia a entrare nell’immaginario collettivo durante la dominazione catalano-aragonese – colei che pone fine, che chiude. Nella cultura tradizionale sarda, circolare e fortemente legata alla ciclicità naturale, è molto probabile che una figura di questo tipo possa essere una rifunzionalizzazione di un più antico ruolo sacerdotale di potere femminile di vita – morte – vita.

Si tratta di una competenza tipica dei ruoli sacerdotali dei luoghi in cui etnostoricamente si sia integrato un profondo servizio d’obbedienza alla terra e agli elementi attraverso la matrilinearità. Difficilmente un tale ruolo poteva presupporre la totale dedizione al solo fine vita, benché sia possibile che in determinati contesti geografici e storici possano aver dovuto occuparsi più dell’aspetto finale dell’esistenza che di quello iniziale per cause sociologiche specifiche.

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Immagine di repertorio Canva

In un atavico conflitto di identità culturali è logico pensare che da parte del potere dominante, come nel caso aragonese fortemente influenzato dal potere papale, si sia innescato un fenomeno di demonizzazione. D’altronde l’occupazione aragonese nell’isola corrisponde con il periodo buio della controriforma e quindi della nascita dell’istituto dell’inquisizione.

Il mito del buon sardo selvaggio

A contribuire ulteriormente alla cristallizzazione di tale controverso immaginario ha provveduto con grande efficacia l’arrivo del dominio savoiardo. Dopo secoli di occupazione aragonese, coi quali però si è mantenuta una certa continuità in termini di apparato amministrativo e modelli culturali, l’arrivo dei nuovi dominatori porta una cesura completa con quello che ancora viene chiamato Su Connotu – Il sistema tradizionale.

In questa fase s’acabadora raggiunge la fama che ancora oggi gli attribuiamo

Viene imposto un nuovo codice legislativo che causerà il conflitto dei codici alla base del fenomeno del banditismo, viene emanata la legge delle chiudende che rade al suolo il sistema comunitario della gestione delle risorse, i suoni dei prestiti linguistici diventano più dolci e vibranti e sbarcano le prime logge massoniche di stampo anglosassone. In aerea continentale l’isola assume presto sembianze da baluardo imperialista: l’isola selvaggia piena di risorse. Luogo di conquista fisica e culturale, il suo profumo fortemente esotico viene addentato presto dalle fauci positivistiche rendendolo un topos del mito del buon selvaggio da civilizzare. Ed è proprio in questa fase che s’acabadora raggiunge la fama che ancora oggi le attribuiamo.

La troviamo nei racconti di viaggio di osservatori altri, ma soprattutto ne abbiamo testimonianza nel romanzo storico del 1830 Il proscritto di Carlo Varese, dentro la cui narrazione viene descritta come appartenente a una casta e a una stirpe di emarginati sociali – gli acabaduri – che dovrebbero assumere geneticamente e culturalmente l’onere di ruolo di porre fine alle agonie dei mortali. Purtroppo ancora oggi la descrizione di questa figura assomiglia molto più a quella fatta nel passato da colonizzatori e imperialisti che a quella che realmente sarebbe lecito, per logica e corrispondenza antropologica, pensare che sia realmente. La via della decolonizzazione è ancora lunga.

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Immagine di repertorio Canva

S’acabadora tra verità e illusione

Ma quindi questa figura è esistita? Senza entrare nel controverso dibattito sulla sua esistenza o meno con questo nome, è abbastanza fisiologico pensare che sia esistita e che esista ancora. Mettendo per un attimo da parte le minuzie antropologiche e affidandosi alle competenze da operatrice tradizionale, di cui porto onore e onere, non c’è dubbio alcuno che prerogative di conoscenza e padronanza del ciclo vita – morte – vita siano tuttora tramandate nel lungo e contorto filo della trasmissione tradizionale.

Ovviamente se parliamo di Matzocas – Martelli di legno – e di cuscini sul volto, allora non abbiamo riscontro attuale di alcun tipo e, a dirla tutta, non sappiamo neanche quanto e in che modo fino al recente passato potesse essere consuetudinario un rituale fisico della morte. Esiste un dibattito umanistico in merito, un dibattito che divide e fomenta polarizzazioni dalle conseguenze deleterie: una dinamica tristemente conosciuta anche nel dibattito sulla funzione dei nuraghi in epoca preistorica.

A tal proposito mi viene in mente un passo de I racconti della Nuraghelogia di Raimondo Demuro in cui un Babbai mannu – Saggio padre delle conoscenze tradizionali, procede con il rito dello sradicamento dell’anima – Su scravamentu nei confronti di uno dei protagonisti di quel racconto. Viene spiegato in modo molto chiaro che in quel contesto specifico era necessario che lui assumesse la funzione di Acabadori affinché l’anima dell’uomo, in uno stato di morte fisica ma non interiore, si sradicasse dal sistema sensoriale corporeo prendendo la via a cui era destinata.

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Immagine di repertorio Canva

Guarda caso il rituale consisteva nell’intonazione di Brebus specifici ad alta competenza esoterica all’acme della quale seguiva l’esecuzione di un colpo nel plesso solare – Su cropu de s’enna de s’anima. Solo dopo lo sradicamento dell’anima si poteva procedere con i rituali funebri. Converrete con me che se questo racconto fosse veritiero, agli occhi di chiunque non fosse parte di quel tipo di cultura potrebbe sembrare un rituale di morte fisica.

Nel gioco di specchi riflessi, l’illusione è il frutto del nostro sguardo. Solo quando sai cosa cercare trovi quello di cui avevi bisogno. La realtà esteriore e interiore è semplicemente ciclica: vita – morte – vita. Finché l’essere umano non smetterà di attaccarsi alla vita continuerà a morire incoscientemente e finché non sarà padrone di morire, continuerà a essere schiavo della vita. Non ci sono acabadoras che tengano, serve imparare a radicarsi e a sradicarsi: dal mondo, dalla terra, dal corpo.