TikTok non è l’inferno. Forse è una via d’uscita
Dalla retorica dell’impegno al bisogno di perdersi: i social non sono più luoghi di dibattito, ma zone di decompressione. Parliamo di TikTok con l’esperto Alberto Cossu.

Seconda e ultima puntata della chiacchierata con Alberto Cossu, sociologo dei media e dei fenomeni digitali. Cagliaritano di nascita, Cossu vive tra la Sardegna e l’Inghilterra dove insegna all’Università di Leicester e dirige un Master sulle culture digitali. Ci eravamo fermati nella prima parte dell’intervista, che puoi leggere qui, all’analisi di un nuovo comportamento digitale che sembra essere emerso e che trova la sua massima espressione nella diffusione di TikTok. Ripartiamo quindi esattamente da lì.
Abbiamo parlato di newsmaking, di venti di guerra che passano per i social – mediati da focacce scrocchiarelle – ma anche di attivismo virtuale. In questo panorama, come si colloca un social come TikTok?
Io direi che sicuramente TikTok inaugura una nuova modalità: è la piattaforma che è cresciuta di più, che ha avuto un exploit simile a quello delle piattaforme occidentali dieci anni fa, ma la logica è completamente diversa, perché si basa sui nostri interessi e non su quello che fanno le tre persone intorno a noi. Forse, è meno individualista: molte persone che utilizzano i contenuti – circa il 60% – non sono neanche registrate sulla piattaforma e non c’è una vera dinamica social per cui ad esempio le persone non si taggano nei commenti, non discutono veramente.
Il visivo e il sonoro sono poi diventati predominanti ma soprattutto non c’è nulla da imparare. Se Twitter era discussione tra addetti ai lavori culturali, politici, giornalisti, se Facebook è una discussione tra amici, familiari e gruppi organizzati anche rispetto a dei temi, tutta questa dimensione sociale strutturata svanisce su TikTok.

Quindi su TikTok si cerca qualcosa di diverso? A me a tratti sembra la bocca dell’inferno per come è strutturato.
Quello che è posso dire è che una ricerca fatta dal collega Paolo Gerbaudo – con cui sto scrivendo un articolo basato su una ricerca condotta su più di 1000 utilizzatori di TikTok –, evidenzia la piattaforma come una grossissima fonte di chill scrolling, in antitesi rispetto al più conosciuto doom scrolling – ovvero il consumo compulsivo di notizie nefaste. C’è un’idea forte di ricerca di un benessere digitale per cui paradossalmente, quello che abbiamo trovato e che portiamo avanti come discussione, è l’idea che TikTok non sia l’inferno ma sia una parte della soluzione all’inferno.
Da cosa arriverebbe il benessere digitale creato da TikTok?
Il fatto che non ci sia una dialettica di scontro, una dimensione quindi razionale testuale in cui ci confrontiamo per le nostre opinioni – come può succedere con i flame [messaggio offensivo o provocatorio ndr] nei commenti che spesso generano proprio la violenza che abbiamo conosciuto su Twitter e Facebook nei cosiddetti troll [utente online che interagisce in modo provocatorio o offensivo ndr] –, crea una dimensione di coreografia sociale paragonabile a quella dei cinesi che da secoli ballano insieme nelle piazze.
Adesso l’ipernormalizzazione passa anche attraverso una finzione che è fatta di assurdo.
Ora si balla insieme su Tik tok dove non c’è nulla da imparare ma solo da rifare, non c’è paura nell’essere come gli altri. La crescita del sensoriale attraverso la diffusione dei video ASMR permette, secondo gli intervistati, di attingere a un certo benessere psicoemotivo. Un effetto quindi tendenzialmente calmante per molti.
Un abbassamento dell’ansia che parrebbe essere molto funzionale all’adattamento dell’essere umano a questa fase storica, in realtà.
Poggiare il telefono chiaramente e sicuramente potrebbe essere un buon consiglio. Ma ciò che è in gioco è l’idea forte di un cittadino consapevole, che sa come dovrebbe comportarsi e per il quale non sia tollerabile perdere mezz’ora guardando video di torte o di tappeti. Si tratta di una visione che, in termini sociologici, potremmo definire normativa: un’idea quindi di come dovremmo essere ed è compito della politica – a qualsiasi livello sia organizzata – farsi carico di questa visione, promuovendo un’idea di impegno che sia però in grado di tenere conto anche dei bisogni psicosociali degli individui.

Ci avviciniamo al concetto di ipernormalizzazione: risale a un testo del 2005 dello studioso Alexei Yurchak, secondo il quale quando le persone vivono in una situazione politica decadente, sviluppano una sorta di dissociazione che le porta a vivere come se nulla fosse. Una risposta che sembra quasi dire: “Ma sai che c’è? Io sono una semplice cittadina: perché dovrei pretendere da me stessa qualcosa di più?”. E allora, perché dovrebbero farsi carico i cittadini comuni, più di quanto si sentano di fare, della difficoltà del contesto?
Il concetto di ipernormalizzazione potrebbe essere assimilato al crearsi un mondo parallelo in questa realtà, attraverso gli schermi da cui siamo circondati. Ora però viviamo una finzione nuova che non è più quella dei dibattiti accesi da cui ci siamo allontanati, nauseati e ammalati: adesso l’ipernormalizzazione passa anche attraverso una finzione che è fatta di assurdo. C’è un po’ di assurdità nel presente.
In una ricerca del sociologo tedesco Harmut Rosa si parla di risonanza, un concetto preso dalla chimica – la resonance. Il fatto è che noi ci leghiamo a fatti che sono molto umani, numerosi contenuti che girano adesso anche su Instagram, che ha preso molto da TikTok, mostrano ad esempio persone che fanno lavori rurali molto semplici o svolgono attività quotidiane. Questo perché c’è bisogno di resonance, di una connessione con le cose umane. Abbiamo una chiave per navigare l’assurdo che è fatta di risonanza ma anche di abbandono e questo significa anche non essere cittadini ideali.
E quindi direi che questa logica dei media, più sensoriale e meno argomentativa, meno dialettica e meno dialogica, possa diventare l’arte per navigare l’insensatezza del contesto. L’insensatezza va abitata così com’è, con l’abbandono come una nuova forma di consapevolezza, sapendo che siamo quelli che siamo e accettandoci così. Quello che emerge dal mio osservatorio è questa nuova tendenza: più verso il sentire, più verso il perdersi, verso l’abbandonarsi e l’abbracciare l’insensatezza della vita.
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