28 Giu 2017

Visiterre, il turismo responsabile che educa alla resistenza

Un viaggio nelle terre di don Peppe Diana per conoscere le buone pratiche avviate in quei territori. È la proposta di turismo responsabile ed esperienziale di Visiterre. Ne abbiamo parlato con Francesco Diana, del Comitato promotore del progetto.

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Un viaggio tra impegno e memoria sulle terre di don Peppe Diana per osservare il mondo con nuovi occhi e conoscere attraverso i principi del turismo responsabile, dove sono primarie la dimensione dell’incontro e la scoperta di ciò che solitamente non viene guardato con attenzione. A guidare i viaggiatori in questo “museo diffuso della resistenza” sono le persone impegnate nell’economia sociale che sperimentano e propongono le buone pratiche del consumo critico come antidoto alla criminalità e strumento di cambiamento reale.

Promosso dal Comitato don Peppe Diana e dall’associazione FormAzione Viaggio, il progetto Visiterre  si inserisce all’interno dell’ampio progetto La RES – Rete di Economia Sociale, sostenuto dalla Fondazione CON IL SUD, che intende promuovere un modello di sviluppo locale integrato fondato sull’economia sociale. Per saperne di più abbiamo intervistato Francesco Diana, del comitato don Peppe Diana e tra i responsabili del progetto Visiterre.

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Come nasce il progetto?
Ogni anno il 19 marzo organizziamo la commemorazione dell’uccisione di Don Peppe Diana, che avvenne nel marzo del 1994. Nel 2009 abbiamo organizzato a Casal di Principe una grande manifestazione con Libera nazionale a cui parteciparono oltre ventimila persone. In seguito molti ci hanno contattato per chiederci di venire a trovarci per conoscere le attività che portiamo avanti nei beni confiscati. Da quel momento abbiamo cominciato ad accogliere queste richieste, inizialmente in modo spontaneo e poco organizzato. Pian piano però ai gruppi informali cominciarono a seguire le richieste degli istituti scolastici, interessati ad intraprendere dei percorsi laboratoriali sull’economia sociale sui beni confiscati.

Ci venne così l’idea che ha poi preso corpo nel progetto Visiterre: una filiera di turismo responsabile che parte dai beni confiscati e si estende sul territorio per far conoscere le bellezze sconosciute al grande pubblico. Noi facciamo vedere Napoli e Caserta con gli occhi di chi le vive, dunque con le associazioni impegnate sul territorio che oltre a mostrare ai turisti le bellezze della zona permettono loro di conoscere le attività portate avanti nei beni confiscati.

Quali sono gli itinerari proposti da Visiterre?
Gli itinerari da noi proposti sono differenziati e pensati in base alle richieste che riceviamo da tutte le parti d’Italia: c’è chi vuole approfondire la storia di Don Peppe Diana, chi è interessato all’attività agricola nei beni confiscati, chi è curioso di conoscere le esperienze di rete e cooperazione avviate sul territorio, chi ancora vuole indagare il tema dell’immigrazione e conoscere da vicino i progetti di integrazione. Gli itinerari vengono quindi costruiti su misura degli utenti. Più che una visita turistica proponiamo laboratori didattici rivolti alle scuole e non solo. Adesso stiamo traducendo in inglese e tedesco i contenuti del sito, considerato l’interesse che stiamo riscontrando anche in altri Paesi.

Collaboriamo con Addio Pizzo Travel, che propone attività simili in Sicilia, e abbiamo aderito all’Associazione italiana Turismo responsabile. Sul modello di Libera, poi, stiamo organizzando anche settimane esperienziali sui beni confiscati, proponendo campi di studio o di lavoro.

Tutto questo sta prendendo forma in quello che abbiamo chiamato Museo diffuso della resistenza: si parte da uno spazio museale fisico – che è casa Don Diana, unico bene confiscato affidato al comitato – per poi dirigersi verso un museo diffuso sul territorio che va anche oltre la provincia di Caserta.

Tramite le nostre attività vogliamo trasmettere gli anticorpi della resistenza anche a coloro che vengono da lontano, insegnando a riconoscere il germe della criminalità.

Sono esclusi invece dalla nostra offerta turistica quelli che potremmo definire “percorsi nel macabro” o il “Gomorra tour”, per intenderci. Non ci interessa il sensazionalismo: non accontentiamo quindi le richieste di chi vuole visitare le case dei camorristi, i luoghi delle sparatorie, i cartelli con i buchi dei proiettili, per fare qualche esempio. Questi territori non sono soltanto “gente che spara” e noi vogliamo far vedere la realtà, che è fatta anche di gente che si impegna e fa il proprio dovere con responsabilità, sognando un mondo migliore per i propri figli. Vogliamo mostrare la verità, senza enfatizzare gli aspetti negativi né quelli positivi. Vogliamo dare onore a chi combatte per il territorio, non intendiamo celebrare le gesta di un camorrista né creare miti, neanche negativi.

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La vostra offerta turistica può rappresentare un’arma contro la camorra? Perché?
Sì, lo è innanzitutto perché produce economia: i turisti che seguono i nostri itinerari fanno i loro acquisti, mangiano e alloggiano presso realtà che fanno parte di una rete di imprese virtuose, realtà che hanno bisogno di vicinanza, come realtà dell’antiracket.

Che significato ha per te il termine “resistenza”?
Abbiamo mutuato questo termine dalla resistenza partigiana all’invasione di persone che volevano imporre la loro presenza in modo assolutamente antidemocratico. Allo stesso modo nella storia di questo posto c’è stato chi ha preso il potere per imporre una logica di sopraffazione. Fare resistenza significa riportare una pace sociale, costruire comunità sane e non drogate dall’economia criminale.

Hai notato dei cambiamenti positivi sul territorio nell’ultimo periodo?
Sì, anche se non possiamo dire di esserci lasciati alle spalle tutto il male, né che le logiche di corruzione siano scomparse. C’è ancora bisogno del sostegno delle istituzioni. Se da una parte è evidente l’azione repressiva dello Stato nei confronti della criminalità organizzata (gli arresti sono all’ordine del giorno), dall’altra manca ancora un piano di ricostruzione e rilancio del territorio.

Avremmo bisogno di sostegno per dare forza ai progetti positivi che stiamo cercando di far camminare a regime. Noi comunque stiamo facendo la nostra parte e anche all’estero c’è molta attenzione verso le attività che portiamo avanti.

Noto inoltre dei cambiamenti positivi anche nell’immaginario delle nuove generazioni: i criminali non rappresentano più o rappresentano meno dei modelli carismatici e vincenti per i ragazzini. Oggi i giovani hanno ben chiara l’immagine del criminale che viene arrestato e a cui viene tolto tutto. E d’altra parte le persone oneste non vengono più considerate “sfigate”.

Si respira anche una certa aria di libertà prima praticamente sconosciuta. Ricordo che nel 2009 avevamo bisogno di comunicare la nostra presenza alle Forze dell’Ordine per essere tutelati quando ci trovavamo in alcune zone. Attualmente ci si sente più sicuri, c’è una maggiore libertà di criticare l’operato delle amministrazioni o dissentire davanti alle logiche criminali. In passato ai ragazzini prima di uscire di casa veniva detto “stai attento a con chi parli e a come parli”.

Tuttavia, rimane ancora molta strada da fare. Penso in particolare all’emergenza lavoro: quando non si ha un’occupazione aumenta il rischio di imbattersi in attività non pulite. Si rischia quindi di alimentare con più facilità la criminalità. Proprio per questo assume ancora più importanza sostenere e favorire le reti di economia virtuosa.

Articolo tratto da CON_Magazine, giornale online realizzato da Fondazione CON IL SUD in collaborazione con Italia che Cambia

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