Stanno emergendo collegamenti fra fondi Ue anti-migranti e le stragi in Sudan
Dal 2014 l’Ue ha finanziato programmi per gestire la migrazione nel Corno d’Africa. In Sudan, parte di quel sistema ha interagito con attori oggi coinvolti in crimini contro i civili.
Nel 2014 l’Unione Europea ha inaugurato il Processo di Khartoum, cornice di cooperazione con i paesi del Corno d’Africa per contrastare traffici di esseri umani, rafforzare i confini e promuovere canali regolari. Dentro quella cornice è nato l’EU Emergency Trust Fund for Africa (EUTF), un fondo europeo che ha finanziato – fra le altre cose – progetti in Sudan su gestione migratoria, frontiere e sicurezza.
Oggi, nel mezzo di una guerra civile molto violenta e della più grave crisi umanitaria al mondo, in molti iniziano a chiedersi quanto quella architettura di fondi ha finito per rafforzare, direttamente o indirettamente, attori ora accusati di violenze di massa.
Già nel 2017 il think tank Enough Project affermava che la partnership Ue potesse aver “legittimato” lo stato-milizia sudanese, in particolare le Rapid Support Forces (RSF) guidate da Mohamed Hamdan Dagalo, evoluzione dei famigerati janjaweed del Darfur e attuali responsabili delle stragi più efferate.
In quel caso non veniva provato un travaso diretto di denaro europeo nelle casse delle RSF, ma si indicava un rischio strutturale: contribuire a infrastrutture e catene di comando in cui le RSF avevano un ruolo crescente, specie nei pattugliamenti di frontiera. Un allarme precoce, rimasto sullo sfondo mentre l’Europa accelerava sull’esternalizzazione dei confini.
L’Italia, in parallelo, ha firmato nel 2016 un Memorandum d’Intesa con il Sudan per cooperare su lotta al crimine, controllo dei confini e rimpatri. Quel testo, non reso pubblico all’epoca nei dettagli, è stato ricostruito da giuristi e organizzazioni indipendenti, che ne hanno evidenziato l’ampiezza e l’opacità. Anche qui l’intento era pragmatico: frenare le rotte di migranti verso la Libia a monte. Ma l’esperienza dice che la segretezza negoziale e la carenza di controlli terzi aumentano il rischio di deviazioni e di effetti inattesi su diritti e tutele.
Dal 2023 il Sudan è precipitato in una guerra brutale tra esercito regolare e RSF, di cui solo adesso i giornali stanno iniziando a parlare, con assedi, esecuzioni sommarie e violenze sessuali di massa. L’Unione Europea ha reagito con sanzioni mirate contro individui ed entità legate a entrambe le parti, riconoscendo la gravità dei crimini e il rischio di alimentare il conflitto attraverso flussi finanziari e materiali. È un segnale politico importante, ma arriva dopo anni in cui l’Europa aveva fatto del Sudan un partner funzionale al contenimento dei movimenti migratori.
Gli organismi di controllo europei hanno, nel frattempo, sollevato rilievi di metodo. La Corte dei Conti europea, nel Rapporto speciale 17/2024, ha criticato l’EUTF per focus non sempre chiari, monitoraggio incompleto dei risultati e mitigazioni del rischio insufficienti. Non un atto d’accusa contro i singoli progetti, ma un invito a definire obiettivi misurabili, trasparenza sui beneficiari e salvaguardie robuste quando si opera in paesi fragili. Tutti elementi che fin qui sono mancati, in relazione ai fondi diretti verso il Sudan. Per i cittadini europei, significa pretendere dati pubblici tracciabili su chi riceve fondi, con quali responsabilità e quali verifiche indipendenti.
Le sanzioni europee contro individui ed entità della guerra sudanese dicono che l’Ue riconosce la natura criminale di molte condotte in atto. Il passo seguente sarebbe allineare l’intero portafoglio di cooperazione, inclusi i programmi migratori, a quelle stesse valutazioni. In altre parole, non spendere un soldo se c’è anche un ragionevole dubbio che possa beneficiarne chi oggi perpetra massacri indiscriminati ai danni della popolazione civile.






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