Ciak, si tratta? Il cinema e il governo provano a dialogare – 9/6/2025
Dalla tregua tra governo e cinema alle proteste globali contro repressioni e retate.
Intanto il Burundi vota nel silenzio e gli oceani tornano sotto i riflettori.

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Fonti
#cinema
il Post – Alessandro Giuli e il mondo del cinema stanno provando a fare pace
#proteste
Apnews – Thousands of demonstrators march through Rome to call for an immediate end to the war in Gaza
Ansa – Proteste e scontri a Los Angeles, Trump invia la Guardia Nazionale. Hegseth: ‘Pronti a intervenire anche i marines’
Times of India – Manipur unrest
#Burundi
il Post – «Ma dove siamo, in Burundi??»
#oceani
Corriere della Sera – Conferenza Onu oceani 2025, a Nizza i Grandi del pianeta: specie a rischio, plastiche e acque sempre più calde le priorità
Italia che Cambia – Le microplastiche sono ovunque. Cosa possiamo fare per fermarle? – Soluscions #7
Trascrizione episodio
Ricordate lo scontro fra Ministro della cultura Alessandro Giuli e il mondo del cinema, o almeno una fetta consistente del mondo del cinema e dello spettacolo italiano? Ci sono state settimane di tensioni, comunicati duri, petizioni, e anche qualche attacco personale a mezzo stampa. Ma venerdì è successa finalmente una cosa importante.
Il ministro della Cultura ha finalmente incontrato una delegazione di rappresentanti del mondo del cinema. Fra l’altro l’incontro è avvenuto lo stesso giorno – venerdì appunto – in cui il ministero ha pubblicato un provvedimento correttivo sul tax credit, che è il principale strumento fiscale che regola gli incentivi alla produzione cinematografica in Italia nonché il principale motivo degli scontri fra governo e mondo del cinema.
In pratica il tax credit consente a chi produce un film di ottenere uno sgravio fiscale fino al 40 per cento delle spese sostenute. Negli anni scorsi ha contribuito in modo importante alla crescita del settore, portando anche molte produzioni internazionali a girare in Italia. Ma negli ultimi anni, tra pandemia, tagli, e modifiche regolamentari, è diventato un tema molto controverso. In particolare, il decreto firmato l’anno scorso dall’ex ministro Gennaro Sangiuliano aveva introdotto vincoli molto rigidi che secondo molte realtà del settore penalizzavano molto le produzioni indipendenti e quelle di dimensioni più piccole.
E su tutta la questione è calata una sorta di nebbia normativa, con promesse di modifiche, riforme ventilate e mai approvate, e sappiamo che quando si tratta di questioni economiche, l’incertezza è la peggior nemica degli investimenti. Così le case di produzione hanno smesso di investire in Italia e l’intero settore si è paralizzato. Secondo le associazioni del settore, il 70 per cento dei lavoratori e delle lavoratrici del cinema — registi, attrici, tecnici, sceneggiatori — è senza lavoro da oltre un anno. E c’era anche un po’ il sospetto che tutta questa incertezza fosse anche un po’ un modo del governo di andare a colpire un settore dove c’è una certa egemonia culturale della sinistra.
Comunque, tornando alla riforma contestata, tra le richieste più contestate c’erano l’obbligo di avere un contratto già firmato con una delle prime venti società di distribuzione italiane, l’obbligo di dimostrare la copertura del 40 per cento dei costi con capitali privati — senza poter includere i fondi regionali — e un investimento minimo in promozione che in molti casi risultava proibitivo. Misure che di fatto hanno reso impossibile accedere al tax credit per gran parte delle produzioni minori. Alcune di queste avevano anche fatto ricorso, ma il tribunale non si è ancora espresso, proprio perché era attesa una modifica della norma da parte del ministero.
Negli ultimi mesi, lo scontro si era spostato anche sul piano personale, con attacchi piuttosto diretti tra Giuli e alcuni personaggi del cinema italiano, come Elio Germano e Geppi Cucciari. L’incontro di venerdì e il nuovo testo pubblicato dal ministero sembrano aver contribuito a stemperare i toni.
Il provvedimento correttivo interviene proprio su alcuni degli aspetti più criticati. Viene eliminato l’obbligo di avere accordi con i grandi distributori per accedere al bonus fiscale e vengono inclusi anche i fondi regionali tra le risorse considerate valide per la copertura dei costi. Viene anche ridotto il numero di proiezioni obbligatorie richieste per le produzioni più piccole. Allo stesso tempo, vengono introdotti nuovi obblighi, soprattutto in termini di trasparenza e di reinvestimento dei profitti ottenuti grazie al credito d’imposta. Chi dichiara il falso o presenta documentazione incompleta non potrà più accedere al tax credit per cinque anni.
Della delegazione facevano parte, tra gli altri, Claudio Santamaria, Giuseppe Fiorello, Stefano Rulli, Vittoria Puccini e il documentarista Dario Indelicato, fondatore del movimento “Siamo ai titoli di coda”, che da mesi denuncia la situazione di stallo del settore. Proprio Indelicato, dopo l’incontro, ha parlato di un clima finalmente costruttivo e ha detto che “possiamo seppellire l’ascia di guerra”. In un comunicato congiunto con il ministero, la delegazione ha definito positivo l’avvio del dialogo e ha proposto la creazione di un osservatorio permanente per monitorare la situazione, oltre all’introduzione di un sistema di welfare stabile per chi lavora nel settore.
Il nuovo testo non risolve tutto e non rappresenta una riforma organica del sistema, ma viene considerato da alcuni addetti un passo importante per sbloccare una situazione che si trascinava da troppo tempo. Ora si tratta di capire se da questo dialogo nascerà una politica più strutturata per un settore.
È stati un fine settimana caratterizzato da proteste e manifestazioni in varie parti del mondo. A Roma 300mila persone sono scese in piazza per chiedere un cessate il fuoco immediato a Gaza. Rispetto ad altre manifestazioni, questa è stata decisamente più politica, nel senso che a prendere la parola dal palco di Piazza San Giovanni c’erano diversi leader dell’opposizione, da Elly Schlein a Giuseppe Conte, da Angelo Bonelli a Nicola Fratoianni –, che hanno criticato il governo Meloni per un silenzio ritenuto “vergognoso”. Della serie meglio tardi che mai.
Negli Usa invece ci sono state proteste ancora più gigantesche, contro i raid anti immigrazione condotti dall’amministrazione Trump. Dal suo ritorno alla Casa Bianca, i radi anti immigrazioni sono diventati la norma negli Usa, e oltre a essere condotti con costanza sono stati sempre documentati con post sui social e sono il cuore pulsante della propaganda trumpiana.
Le retate sono condotte dall’ICE (Immigration and Customs Enforcement), l’agenzia federale per il controllo dell’immigrazione, e consistono in arresti di massa di persone senza documenti regolari, spesso nelle loro case, nei luoghi di lavoro o perfino per strada. E come potrete immaginare fioccano i casi di errori, di persone con regolari permessi di soggiorno imprigionati e deportati.
Ecco, ieri in diverse città statunitensi, a cominciare da Los Angeles, centinaia di manifestanti sono scesi in piazza per opporsi alle ultime retate dell’ICE. Non ci sono stime esatte delle persone ma parliamo realisticamente di diverse centinaia di migliaia di persone. Contro le quali Trump ha deciso di dispiegare 2.000 militari della Guardia Nazionale.
Le tensioni non sono mancate: nel sobborgo di Paramount i cortei sono stati colpiti da gas lacrimogeni, proiettili di gomma e ordigni stordenti contro i manifestanti, che di contro hanno lanciato pietre (e perfino blocchi di cemento) verso agenti e veicoli federali.
Una discreta grana interna per Trump, fra l’altro negli stessi giorni della plateale rottura con Elon Musk, con Musk che ha accusato Trump di essere un pedofilo e Trump Musk di essere un pazzo drogato. Non ci sono andati piano. E Musk che ha annunciato la findazione di un suo partito.
In India infine, ad Imphal, capitale dello stato indiano del Manipur, ci sono stati scontri e arresti seguiti all’arresto di un leader del gruppo giovanile Arambai Tenggol, legato alla comunità Meitei, che è la maggioritaria etnica nella valle. Decine di manifestanti sono scesi in strada, alcuni si sono cosparsi di benzina minacciando di darsi fuoco, altri hanno dato alle fiamme veicoli e barricato le strade. Il governo ha reagito con il coprifuoco in cinque distretti e ha sospeso l’accesso a internet mobile.
È difficile spiegare in breve questa notizia. Ma ci proviamo. Il gruppo Arambai Tenggol si definisce una formazione culturale ma in molti lo considerano una milizia nazionalista ed è abbastanza vicina al governo nazionalista di Modi e suo partito, il BJO, il Partito del popolo indiano.
Questa milizia locale è accusata di avere un ruolo attivo negli scontri etnici che dilaniano il Manipur da oltre un anno. Infatti da maggio 2023, il conflitto tra Meitei e Kuki – una minoranza cristiana stanziata nelle zone collinari – ha causato almeno 200 morti e decine di migliaia di sfollati.
Di fronte alle pressioni interne ed esterne però il governo Modi, sebbene idealmente vicino alla milizia, ha deciso infine di arrestare il leader della formazione, e che ci sia l’arresto sia dettato dal governo è testimoniato dal fatto che ad arrestarlo sia stato il Central bureau of investigation, un’agenzia federale controllata direttamente dal governo centrale.
Questo arresto è stato visto come una sorta di tradimento e ha dato il via alle proteste, con l’Arambai Tenggol che ha indetto dieci giorni di sciopero totale. Gli scontri di oggi sono i più gravi delle ultime settimane.
La situazione resta estremamente tesa. E sebbene da Delhi arrivi solo silenzio, le immagini che circolano – di strade vuote, auto bruciate, giovani con taniche in mano – raccontano che la crisi di Manipur è tutt’altro che risolta.
Sabato il Post ha pubblicato una notizia dal titolo “Ma dove siamo, in Burundi?” E il sommario recitava “Sì”. Geniale, come al solito. Nell’articolo si parla delle elezioni in un paese che ancora oggi è rimasto nell’immaginario collettivo italiano sinonimo di arretratezza e “nulla”. Di Burundi, si legge nell’articolo, si parla pochissimo, e quando succede, purtroppo, è quasi sempre per notizie brutte.
Giovedì scorso si è votato per rinnovare il parlamento e non c’era un grande fermento perché non ci si aspettano grandi sorprese. Il partito al potere, il CNDD-FDD, governa da vent’anni e con ogni probabilità continuerà a farlo, anche grazie a un progressivo restringimento degli spazi democratici. Più che delle elezioni però l’articolo parla, diciamo ne approfitta per parlare, di un paese di cui non sappiamo quasi niente.
Il Burundi, per chi non lo sapesse, è questo piccolo paese dell’Africa orientale, tra la Repubblica Democratica del Congo, il Ruanda e la Tanzania. Non ha sbocco al mare, ma si affaccia sul lago Tanganica. È un paese poverissimo, tra i più poveri al mondo, segnato da una storia tragica e da un presente complicato.
Negli anni Novanta fu devastato da una lunga guerra civile, innescata dall’assassinio del primo presidente di etnia hutu democraticamente eletto. La guerra, che si intrecciò anche con il genocidio ruandese, durò oltre un decennio e fece più di 300mila vittime. Da allora gli hutu sono al governo, e in particolare quel partito, il CNDD-FDD, che durante il conflitto era un gruppo armato.
Il suo uomo forte è stato Pierre Nkurunziza, presidente dal 2005 al 2020, non senza accuse di crimini di guerra e brogli elettorali. Dopo la sua morte, la presidenza è passata a Évariste Ndayishimiye, dello stesso partito, che ha continuato a reprimere il dissenso: oppositori politici silenziati, giornalisti minacciati, partiti d’opposizione smantellati.
Un ruolo inquietante lo gioca la gioventù del partito, gli Imbonerakure, una specie di milizia giovanile paramilitare accusata di torture, pestaggi, arresti arbitrari. Formalmente sono solo “giovani attivisti” del partito. Di fatto agiscono con la complicità delle forze di sicurezza.
E anche il quadro sociale è piuttosto drammatico. Il 70% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, l’inflazione è sopra il 40%, lo stipendio medio è di meno di 200 euro all’anno. Si vive di agricoltura di sussistenza, con poche esportazioni – caffè, tè e da poco anche avocado. Le infrastrutture sono a pezzi, sanità e scuola fanno acqua da tutte le parti, e in tanti cercano di emigrare.
Nel frattempo il paese è impegnato anche su un fronte militare: partecipa alla guerra contro il gruppo M23 nella Repubblica Democratica del Congo, ed è in pessimi rapporti con il Ruanda, che appoggia quei ribelli. In politica estera si è avvicinato alla Russia, dichiarando una “neutralità” sull’invasione dell’Ucraina e astenendosi alle Nazioni Unite. È stato anche inserito dal presidente Usa Donald Trump nell’elenco dei Paesi a cui ha vietato di viaggiare negli Usa.
L’aspetto più interessante e inquietante dell’articolo è però quello che parla del perché siamo arrivati a questa situazione. Perché come al solito c’è il nostro zampino, con nostro intendo l’Europa coloniale. Leggo:
“È stato abitato sin dall’antichità e ci sono testimonianze di un regno indipendente del Burundi dalla fine del Sedicesimo secolo, In seguito è stato colonizzato prima dalla Germania (1884-1916), poi dal Belgio (fino all’indipendenza del 1962).
Furono i colonizzatori europei a “unirlo” al Ruanda e a dividerne la popolazione in modo rigido in base alle etnie, favorendo la minoranza tutsi sulla maggioranza hutu. In precedenza le differenze erano solo socioeconomiche, perché gli hutu erano perlopiù agricoltori e i tutsi perlopiù allevatori. Ma scambi, convivenza pacifica e matrimoni misti erano la norma, come in Ruanda. Le imposizioni coloniali condizionarono negativamente il futuro del paese anche quando tornò indipendente”.
Questo è un pattern classico. La potenza straniera arriva, colonizza, crea il caos, sfrutta il caos per dominare e estrarre risorse, poi se ne va, lascia il caos, guerre, dittature militari, continua a sfruttare questo caos. E come se non bastasse, noi da qua guardiamo con un certo senso di superiorità ai casini che succedono là, come se non ci riguardassero, come se fossero frutto di una cultura violenta e arretrata e non delle nostre interferenze e dei nostri interessi. Sorridiamo di quelle sventure facendo diventare il Burundi sinonimo scherzoso di povertà e arretratezza.
Ieri, 8 giugno, è stata la Giornata Mondiale degli Oceani. Una di quelle ricorrenze che servono – o almeno dovrebbero servire – a ricordarci quanto siano fondamentali i mari per la nostra sopravvivenza. E oggi, lunedì 9 giugno, inizia a Nizza la Terza Conferenza delle Nazioni Unite sugli Oceani, che durerà fino al 13 giugno. Si parlerà di come accelerare gli sforzi per salvaguardare i mari e raggiungere l’obiettivo di sviluppo sostenibile numero 14, quello dedicato alla vita sott’acqua. Noi la seguiremo, ovviamente.
Intanto vi ricordo che è uscita una puntata di Soluscions sulle microplastiche e come smettere di produrne.
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