Giornata mondiale dell’ambiente. E se facessimo quella della relazione? 5 storie rigenerative – 5/6/2025
In occasione della Giornata Mondiale dell’Ambiente, esploriamo storie vere e concrete di relazioni sane tra esseri umani e natura.

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Fonti
#miniforeste
Happy Eco News – Japanese Micro-Forests: Urban Green Revolution Transforming City Landscapes
#uccelli
Daily Climate – How farmers are becoming unexpected heroes in the bird migration crisis
Daily Climate – Arizona ranch revives soil and saves water through Indigenous-rooted regenerative farming
#Cinture verdi
L’Indipendente – Una cintura verde protegge Ouagadougou dalla desertificazione e dal caldo estremo
#Pianura Padana
Wired – La società che ha portato un pezzo di Pianura padana indietro di mille anni
#Poseidonia
Liguria che Cambia – Come la Liguria riforesta il Mediterraneo
Trascrizione episodio
Oggi è la giornata mondiale dell’ambiente, come ogni 5 giugno. Una giornata istituita ormai più di 50 anni fa, nel 1972, dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Che però, a mio avviso, soffre di un grave vizio di forma.
Sì lo so, sono un rompiballe, ma credo sia importante. Le giornate mondiali di qualcosa le facciamo in genere quando pensiamo che quel qualcosa abbia bisogno del nostro aiuto. Solo che l’ambiente, la natura, chiamatela come vi pare, tutto ha tranne bisogno del nostro aiuto, di essere salvata da noi.
Innanzitutto perché ambiente e natura sono termini generici che comprendono praticamente tutto ciò che ci circonda. Tutto è natura, e la distinzione fra naturale e artificiale è figlia di una cultura monoteista creazionista che ha separato nettamente l’essere umano dal resto degli ecosistemi.
Quindi proteggere o salvare la natura, il mondo, il pianeta, l’ambiente non ha senso. Al limite possiamo restringere il campo e riformulare la frase in “Tutelare l’equilibrio degli ecosistemi attuale”. Che già ha molto più senso, ma deve esserci chiaro che lo facciamo per noi. Gli ecosistemi troveranno il loro modo per svilupparsi e rifiorire, come hanno sempre fatto. hanno visto cose ben peggiori di homo sapiens in questi quasi 4 miliardi di anni di vita sulla Terra. Pensate che una volta addirittura la vita stava per estinguersi per via dell’accumulo di ossigeno nell’atmosfera terrestre, perché nessuna forma vivente era in grado di processare l’ossigeno.
Poi la vita si è adattata e dai batteri anaerobi sono nati microorganismi capaci di assimilare l’ossigeno, che oggi è una delle componenti principali della vita sul pianeta ed è alla base dell’incredibile varietà di forme viventi. Questo per dire: diamoci una regolata, non siamo poi così temibili come sterminatori di natura, ci hanno fatto il mazzo persino i batteri anaerobi, e non hanno avuto nemmeno la presunzione di creare una giornata mondiale dell’ambiente.
Questo per dire che non stiamo distruggendo l’ambiente, ma solo il nostro habitat e quindi creando le precondizioni per il collasso delle nostre società. Per cui, più che una giornata mondiale dell’ambiente dovremmo fare una giornata mondiale della relazione fra essere umano ed ecosistemi naturali. Perché sta lì il punto.
Dobbiamo recuperare e rielaborare quella relazione, spogliarci delle manie di grandezza di cui soffriamo, sia che vogliamo distruggere il mondo che lo vogliamo salvare e lavorare sulla nostra relazione col resto.
E allora, per celebrare la 1a giornata mondiale della relazione fra essere umano ed ecosistemi naturali (si, mi rendo conto, sul nome bisogna lavorarci) oggi proviamo a cambiare prospettiva. E a mostrare che, anche se questa relazione è spesso deteriorata, ci sono tanti casi in cui esseri umani e ecosistemi non si distruggono a vicenda, ma si aiutano, si integrano, si rigenerano insieme. Oggi ve ne racconto alcuni, partendo sempre da articoli di giornale.
Insomma, oggi vi porto un po’ di storie – reali, concrete – di come potremmo stare al mondo. Non perfetti, ma parte di un equilibrio. E magari, chissà, da queste storie possiamo tirare fuori anche qualche idea per vivere meglio tutti.
Partiamo da qui vicino. Perché la prima esperienza che vi racconto arriva proprio dall’Italia, da una delle zone più inquinate e devastate del nostro paese, la Pianura Padana, simbolo dell’industria e dell’agricoltura intensiva.
Ma al suo interno c’è una delle esperienze più incredibili di rigenerazione naturale. Leggo dall’articolo di Wired a firma di Gianluca Schinaia:
“Ma è sempre qui, precisamente a a Giussago (Cascina Darsena), che si trova qualcosa di inedito da dieci secoli, uno spazio di 500 ettari che richiama la Pianura Padana di mille anni fa: un’area ricchissima di biodiversità, costellata dalle fronde alte degli alberi che ombreggiano i sentieri, il verde onnipresente, le piccole paludi.
E poi cavalli e uri allo stato brado, usignoli che cinguettano mentre in alto volano il tarabuso o il cavaliere d’Italia: specie autoctone, scomparse col tempo dai luoghi d’origine, ma che oggi sono tornate. Questa zona strappata al presente siccitoso e riportata indietro di mille anni è il frutto del progetto di Simbiosi.
Il primo obiettivo di questa società, costato trent’anni di lavoro e decine di milioni di euro, è stato riportare quest’area di Giussago indietro di mille anni quando la piana solcata dal Po era una foresta estesa migliaia di chilometri, popolata da alberi altissimi e sottoboschi ricchi di vita. Il secondo è creare una smart land che sia l’esempio funzionale di come le grandi città potrebbero risolvere le problematiche legate all’approvvigionamento energetico, allo smaltimento della CO2 e ai rifiuti”.
In questo spazio, coltivare vuol dire rigenerare. Grazie all’utilizzo di studi ecosistemici e tecniche agrarie naturali avanzate, e al coinvolgimento di ben 3 università, gli agricoltori hanno rinunciato 10% della superficie per lasciarla alla natura selvaggia, e ottenere dal restante 90% raccolti più abbondanti, più sani, e su un suolo che immagazzina carbonio invece di rilasciarlo. Significa usare tecnologie agrivoltaiche, refrigerazione naturale, sistemi di recupero dei nutrienti dagli scarti. È economia circolare applicata al paesaggio. E funziona.
Come dice uno dei due ideatori del progetto, Piero Manzoni: “Abbiamo messo la prima nota, e la natura ha scritto la melodia”. Gli animali sono tornati da soli. Gli alberi sono cresciuti senza forzature. Gli ecosistemi si sono riorganizzati. E tutto questo non è solo un bel progetto rurale: è un modello scalabile, pronto per essere applicato attorno alle grandi città, per ridisegnare le periferie urbane come centri di servizi ecosistemici.
Fra l’altro è curioso che l’altro ideatore del progetto rigenerativo, Giuseppe Natta, è il figlio del premio Nobel per la chimica Giulio Natta che aveva vinto il Nobel per l’invenzione del polipropene, ovvero il tipo di plastica più diffuso al mondo, con cui si fanni piatti, bicchieri e un sacco di altra roba monouso. Ed è conosciuto come l’inventore della plastica. Non so se è un cerchio che si chiude, se è un tentativo di espiazione generazionale, fatto sta che il progetto è molto bello.
Restando in tema agricoltura rigenerativa, negli Usa gli agricoltori stanno dando una mano, con metodi simili, per porre rimedio alla crisi degli uccelli migratori. Ne parla una ricerca su Daily Climate.
Non so se lo sapete ma negli Usa c’è una grossa crisi in corso, che ha a che fare con cieli sempre più vuoti. Uccelli migratori come gru, anatre, piro-piro stanno scomparendo lungo le rotte che da millenni solcano le Americhe. E la colpa è, ancora una volta, della perdita di habitat: zone umide prosciugate per fare spazio ad agricoltura intensiva o nuove urbanizzazioni.
Qui però una serie sempre più numerosa di agricoltori, in particolare coltivatori di riso e allevatori di gamberi della Louisiana e del Texas, stanno riconvertendo temporaneamente le loro terre in habitat accoglienti per gli uccelli migratori. Risaie allagate e stagni per i crostacei che diventano vere e proprie zone umide di passaggio. Come racconta Elijah Wojohn, biologo della conservazione, al giornale Usa, “Ci puoi vedere 30, 40, 50 specie diverse di uccelli, anfibi, rettili, tutto insieme”.
Il tutto, va detto, non parte esclusivamente dagli agricoltori, ma da una serie di progetti supportati da organizzazioni come Ducks Unlimited e Manomet, che offrono incentivi economici a chi adotta queste pratiche compatibili con la biodiversità. Così gli agricoltori ci guadagnano, e gli uccelli trovano un posto dove sostare, nutrirsi e continuare il loro viaggio.
Sempre Daily Climate racconta una esperienza di un ranch specifico, fra questi, che ha delle caratteristiche davvero speciali. Nel cuore arido dell’Arizona meridionale, dove la siccità è ormai cronica e i terreni sono sempre più esausti, sorge infatti questo ranch che sta riscrivendo le regole dell’agricoltura. Si chiama Oatman Flats Ranch ed è la prima azienda agricola del Sud-Ovest USA ad aver ottenuto la certificazione Regenerative Organic, nel 2021. Quindi biologica e rigenerativa.
Usano tecniche ispirate alla tradizione indigena e alle condizioni ecologiche locali: colture autoctone come il grano White Sonora e il mesquite, niente irrigazione a pioggia, poca o nulla lavorazione del suolo, pascolo rotazionale. E i risultati parlano chiaro: in cinque anni hanno raddoppiato la materia organica nel suolo e risparmiato oltre un miliardo di galloni d’acqua. Un miliardo.
Dall’ambiente agricolo passiamo a quello urbano. Perché in mezzo alle distese di cemento, traffico e palazzi di varie città del mondo sempre più spesso stanno spuntando dei piccoli boschi? E non parliamo delle classiche aiuole con due panchine e una palma in vaso, ma di veri micro-ecosistemi, fitti, selvatici, vivi. Che permettono alle città di respirare.
Un articolo sul sito Happy Eco News racconta la storia delle micro-foreste urbane, nate negli anni ’70 da un’idea del botanico Akira Miyawaki in Giappone e oggi diffusissime anche in altre metropoli. L’idea è semplice: piantare solo specie autoctone in uno spazio piccolissimo – anche solo 9 metri quadri – ma farlo in modo fitto, stratificato, naturale. E il risultato è sorprendente: un ecosistema che cresce dieci volte più veloce di un bosco normale e diventa autosufficiente in 3-5 anni.
In questi mini-boschi ci vivono uccelli, insetti, piccoli mammiferi, a in alcuni casi diventano delle piccole oasi di rigenerazione anche per gli esseri umani che hanno bisogno di riconnettersi con se stesso e con il resto degli ecosistemi. Succede a Londra, dove le scuole li usano come aule verdi. Succede a Parigi, dove fanno parte del programma “Oasis” per raffreddare i cortili scolastici. Succede in oltre 50 città del mondo, da Madrid a Saint George in Romania, dove la ONG SUGi ha piantato più di 400.000 alberi all’interno del progetto foreste tascabili.
E, appunto, non è solo questione di verde decorativo. Le micro-foreste assorbono CO2, migliorano la qualità dell’aria, combattono l’effetto “isola di calore” urbano. E hanno un valore educativo enorme: oltre 80.000 bambini hanno partecipato finora alla loro creazione. E soprattutto, contribuiscono a ricreare relazione fra noi e il resto della natura, specie in città dove questa relazione spesso vacilla. Come dice Elise Van Middelem, fondatrice di SUGi, “non si può piantare un micro-bosco senza coinvolgere la comunità”.
Insomma un progetto ecologico che diventa un’azione collettiva, concreta, visibile e che mostra che anche tra palazzi e asfalto, può crescere un piccolo pezzo di mondo selvatico.
Immaginate una delle città più calde e fragili del pianeta, al centro di una regione che perde ogni anno 360.000 ettari di suolo. Una città che in 14 anni ha raddoppiato i suoi abitanti, con un clima sempre più estremo, dove coltivare qualcosa sembra quasi un atto rivoluzionario. Bene, adesso immaginate che quella città – Ouagadougou, capitale del Burkina Faso – stia diventando un laboratorio verde a cielo aperto. Ne parla Simone Valeri su L’Indipendente.
Tutto gira intorno a una cintura. Una cintura verde fatta di orti urbani, alberi, pozzi, piccoli appezzamenti. Un progetto partito negli anni Settanta per fermare l’avanzata del deserto, poi rallentato, ma che oggi ha ripreso forza e si estende per oltre 2.000 ettari. L’obiettivo? Circondare tutta la città con una fascia vegetale che mitiga il caldo, protegge il suolo, produce cibo e rigenera comunità.
E non è solo questione di piante. È questione di persone. Di dignità ritrovata. Come Lassina Kaboré, che prima raccoglieva rifiuti e oggi coltiva lattuga. O come Zarate Ibundo, che ha lasciato il lavoro massacrante di frantumare pietre per dedicarsi all’orto. «Ora posso vivere meglio», dice. E non è retorica.
Questa cintura non è solo un’idea ecologica, ma una risposta integrata: al clima, alla fame, alla disoccupazione. Riduce la temperatura fino a 5°C nelle zone vicine, coinvolge più di 265.000 persone, offre mense scolastiche sostenibili, e una piattaforma online per vendere i prodotti coltivati localmente. E lo fa con una visione chiara: diventare entro il 2040 un modello agroecologico per tutta l’Africa Occidentale.
Ecco, queste erano alcune storie che ci mostrano un’altra faccia della relazione tra esseri umani e ambiente. Storie piccole, medie o grandi, ma comunque dense di significato. Perché ci raccontano una cosa molto semplice, e molto rivoluzionaria, che in fondo sappiamo, ma che spesso dimentichiamo: la natura non ha bisogno di noi, ma noi abbiamo un disperato bisogno di ristabilire un legame con il resto della vita. Non per salvarla, ma per salvarci. O perlomeno per star meglio.
E allora, in questa (auto-proclamata) prima Giornata mondiale della relazione fra essere umano ed ecosistemi naturali, forse possiamo prenderci un impegno: fare la nostra parte non per salvare il mondo, ma per ritrovare il nostro posto al suo interno. Un posto più integrato, più ridimensionato. E anche più nostro.
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