26 Apr 2023

Biolaboratori e Intelligenza artificiale: dobbiamo fermarci? – #716

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Biolaboratori in cui vengono maneggiati virus potenzialmente letali per il genere umano, sviluppi incontrollati dell’intelligenza artificiale: possiamo auto imporci dei limiti allo sviluppo delle nostre conoscenze? Parliamo anche del fenomeno del climate quitting, delle politiche di riduzione del consumo di carne volute dal sindaco di NY, delle novità che riguardano l’Iran e infine di qualche altro aggiornamento e segnalazione.

Mi sono imbattuto in due articoli molto interessanti, che parlano di due argomenti diversi ma che sono in qualche modo simili. Il primo riguarda i biolaboratori dove si studiano i virus, il secondo la ricerca e lo sviluppo dei sistemi di AI.

Entrambi, in fin dei conti, parlano dei limiti della ricerca, e di come sia importante definirli bene, dal principio, per non rischiare di finire in territori dove i rischi superano i benefici. Territori in cui, per molto aspetti, già ci troviamo.

Comunque, ve li racconto brevemente. Il primo articolo è scritto da Matteo Ocone su La Svolta e in buona parte riprende un’inchiesta del Washington Post proprio sui biolaboratori di massima sicurezza, che sono i luoghi in cui si analizzano virus sconosciuti per identificare potenziali minacce per gli esseri umani. Il problema è oggi sono i biolaboratori stessi ad essere diventati delle potenziali minacce. Leggo dall’articolo: 

Inizialmente, i laboratori bunker dove si svolgeva la ricerca su agenti patogeni si contavano sulle dita di una mano, poi tutto è cambiato quando ci furono, nel 2001, in America, gli attacchi all’antrace. Fino a quel momento i virus letali come Ebola erano trattati in laboratori super specializzati, tra cui il più noto era quello di Fort Detrick, poi i finanziamenti americani hanno avviato la costruzione di altri laboratori di massimo contenimento, pubblicizzati come vedette contro il bioterrorismo che avrebbero aiutato a diagnosticare infezioni umane, vaccini e terapie salvavita.

Il Global BioLabs Report 2023, frutto di un consorzio britannico-americano che si batte per un controllo rigoroso sugli agenti patogeni, dimostra che i laboratori di massima sicurezza Biosafety Level BLS-4 (sarebbero quelli in cui si lavora con agenti che potrebbero essere facilmente trasmessi per aerosol all’interno del laboratorio e causare malattie gravi o fatali nell’uomo per le quali non esistono vaccini o trattamenti disponibili) sono oggi 69, di questi la metà costruita nell’ultimo decennio e 10 in costruzione nell’ultimo anno.

I laboratori classificati come BLS-3, meno restrittivi, sono invece quelli in cui gli scienziati maneggiano agenti patogeni letali come la peste, l’antrace e i coronavirus responsabili del Covid-19. Di questa tipologia di laboratori, che oggi sono 1362 solo negli USA, non si ha un elenco completo, perché alcuni non si registrano presso il Governo Federale.

Il Centers for Disease Control and Prevention ha registrato 98 incidenti l’anno tra il 2009 e il 2018, ma incrociando i dati con i registri del National Institutes of Health, si contano altri 184 incidenti nello stesso periodo, tutti accaduti in laboratori classificati BLS-2 o superiori.

Inoltre al di fuori degli Stati Uniti, il Global BioLabs Report 2023 dimostra infatti che quasi un laboratorio su quattro classificato BLS-4 è stato costruito in assenza di regolamenti locali o di una supervisione sulla manipolazione di agenti patogeni.

La maggior parte dei Paesi non dispone dei controlli sofisticati necessari per impedire che virus o batteri pericolosi vengano utilizzati in modo improprio o dirottati per scopi illeciti e «questo è un grande punto cieco nella sorveglianza globale per le future minacce biologiche», ha detto Gregory Koblents, coautore del Global BioLabs Report.

Veniamo all’Intelligenza artificiale. In questo caso commentiamo una recente intervista rilasciata al Telegraph dallo storico e saggista Yuval Noah Harari, in cui commenta con preoccupazione la crescente espansione dei sistemi di Intelligenza artificiale. 

Come sempre Harari da una serie di chiavi di lettura mai banali. Vi leggo l’inizio dell’articolo, scritte da Harry De Quetteville: “Le storie sono sempre state fondamentali per Yuval Harari, storico-filosofo israeliano. La capacità unica della nostra specie di essere legata e unita da narrazioni intangibili è stata al centro di Sapiens, il suo saggio incredibilmente popolare sull’ascesa della nostra specie. Forse è per questo che oggi è così profondamente preoccupato per l’ascesa di uno sfidante della nostra maestria narrativa: l’intelligenza artificiale (AI). “È la prima tecnologia della storia a creare storie”

Harari fa tutta una serie di considerazioni sull’impatto sociale, psicologico, sulle possibilità manipolatorie e di controllo e atante altre cose per concludere che “bisogna assolutamente quanto prima regolamentare l’IA: “Un’azienda farmaceutica non può immettere sul mercato un nuovo farmaco senza prima passare attraverso un lungo processo normativo. È davvero bizzarro e spaventoso che le aziende possano semplicemente rilasciare strumenti di intelligenza artificiale estremamente potenti nella sfera pubblica senza misure di sicurezza simili. Tali misure dovrebbero essere applicate dal governo. Aspettarsi che l’industria tecnologica si regoli è ridicolo. Con tutto il rispetto per Elon Musk e Zuckerberg o gli altri capi delle grandi aziende tecnologiche, non sono eletti da nessuno, non rappresentano nessuno tranne i loro azionisti e non c’è motivo di fidarsi di loro”.

Il fatto che Harari citi esplicitamente Musk non è un caso fra l’altro. Elon Musk infatti, che era stato fra i firmatari, assieme allo stesso Harari, della lettera che chiedeva una moratoria contro ulteriori sviluppi dell’AI, ha annunciato il proprio chatbot AI pochi giorni fa. Un po’ confuso.

Comunque, che sia la ricerca sui nuovi virus o quella sull’intelligenza artificiale, la sensazione (che ormai è più una certezza) è che il genere umano abbia in mano strumenti potentissimi sui quali non può avere un pieno controllo. E allora è importante farsi la domanda, costantemente, frequentemente. Siamo sicuri che la ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico debbano per forza procedere in tutte le direzioni? Possiamo scegliere, come genere umano, di fermarci e di non proseguire lungo una determinata direzione?

“Dopo molti anni all’estero, ero tornato in Italia ed ero stato assunto da un’azienda di consulenza. Mi occupavo di bilanci di sostenibilità: il lavoro era interessante, avevo un contratto a tempo indeterminato e guadagnavo bene. Un giorno mi è stato chiesto di lavorare sulla strategia green di una delle maggiori aziende petrolifere italiane: ho detto che non ero d’accordo, ma mi hanno risposto che quello era un cliente di cui non si poteva fare a meno. Così ho deciso di licenziarmi”.

Inizia così, con questa testimonianza, un articolo di Alice Facchini su L’Essenziale, che indaga il fenomeno dei climate quitter, ovvero persone che lasciano il lavoro perché lo ritengono dannoso per il clima, per la biodiversità, per la sostenibilità.

La testimonianza che vi ho letto è di Andrea Grieco, 31 anni, e la sua esperienza rientra, spiega l’articolo, nella tendenza più ampia delle grandi dimissioni, ma con una motivazione più specifica. Come spiega ancora il ragazzo: “Gran parte delle nostre giornate è occupata dal lavoro: è importante mettere queste energie dalla parte giusta. Dopo qualche mese sono stato assunto da una realtà editoriale in cui scrivevo di sostenibilità: guadagnavo molto meno, ma mi sentivo a posto con me stesso. Adesso lavoro per le Nazioni Unite, mi occupo di comunicazione in supporto alla campagna globale contro il cambiamento climatico. Oggi definirsi attivisti è una moda, ma anche decidere quale professione si vuol fare è una forma importante di attivismo”.

L’articolo fornisce poi alcuni dati interessanti: una ricerca del Politecnico di Milano mostra che, in Italia, il 65 per cento di chi ha meno di 30 anni considera importante che il proprio lavoro abbia un impatto positivo sulla società. Chi ha cambiato impiego, o ha intenzione di cambiarlo nei prossimi sei mesi, nel 6 per cento dei casi compie questa scelta per questioni legate all’impatto sociale e ambientale dell’azienda o dell’organizzazione in cui lavora: considerando solo la fascia sotto ai 30 anni, la percentuale sale all’11 per cento, quattro punti in più rispetto al 2022. 

E il fenomeno non sarebbe solo italiano: “Un sondaggio della Yale school of management su duemila studenti statunitensi mostra che più della metà accetterebbe stipendi più bassi pur di lavorare per un’azienda attenta all’ambiente. Tendenza confermata anche da una recente indagine della Kpmg svolta nel Regno Unito, che evidenzia come i fattori ambientali, sociali e di governance influenzino sempre più le decisioni occupazionali di quasi la metà degli impiegati britannici, soprattutto i più giovani. Nel mondo, una persona su cinque occupata nel settore delle rinnovabili proviene da un altro campo sempre legato all’energia, e quasi un terzo ha lasciato l’industria petrolifera e del gas. L’82 per cento di chi opera ancora nel settore petrolifero sta prendendo in considerazione l’idea di cambiare, e la metà considera di buon occhio un possibile impiego nel campo dell’energia verde.

L’articolo è molto lungo e interessante, parla delle b-corp e fra l’altro ospita una testimonianza anche di una nostra amica, Alice Pomiato, in arte aliceful, influencer della sostenibilità (ammesso che si dica così) e consulente, che ci ha accompagnato durante il viaggio che abbiamo organizzato per festeggiare i dieci anni di ICC aiutandoci nella comunicazione social. 

Ad ogni modo mi sembra che la prima parte sia la più interessante, perché presenta dei dati abbastanza inequivocabili che mostrano l’emergere di un fenomeno, che noi documentiamo da molti anni su Italia che Cambia ma che forse fin qui è stato più sottotraccia: quello della necessità di fare un lavoro sensato, di superare la divisione fra attivismo e vita lavorativa, del business is business. Anche perché, soprattutto per le giovani generazioni, non si tratta di scelte ideologiche o astratte, si tratta del proprio futuro.

A proposito di scelte sostenibili, altre notizie interessanti arrivano da New York, dove il sindaco Eric Adams ha promesso di ridurre le emissioni di anidride carbonica legate all’approvvigionamento alimentare della città del 33 per cento entro il 2030. 

Avevamo già parlato qualche settimana fa del piano di sostenibilità di New York, che però allora appariva poco definito. Adesso stiamo andando più nel concreto: Adams, racconta Andrea Indiano su Lifegate, “ha presentato dei dati che mostrano come a New York il consumo di cibo sia la terza causa di emissioni, e rappresenti il 20 per cento delle emissioni complessive di CO2 dopo gli edifici (34 per cento) e i trasporti (22 per cento). 

Secondo le stime della municipalità, gli acquisti di cibo producono una quantità di anidride carbonica pari ai gas di scarico annuali di oltre 70mila autovetture alimentate a benzina. Nel 2021, durante l’ultimo anno di mandato di Bill de Blasio, la città si è impegnata a ridurre le emissioni legate al cibo del 25 per cento entro il 2030. Ora, Adams ha deciso di alzare la percentuale fino al 33 per cento.

Il primo passo sarà limitare fortemente il consumo di carne nelle mense comunali della città, negli ospedali pubblici e nelle scuole. Ma il piano in futuro dovrebbe ampliarsi a tutti i cittadini, attraverso campagne di comunicazione e non solo.

Fra l’altro lo stesso sindaco segue una dieta vegana, ha pubblicato un libro di ricette e signa, scrive nel suo stesso libro, che elettori e concittadini inizino a seguire una dieta con meno carne come la sua. Già oggi le scuole di New York già si astengono dal servire carne il lunedì e il venerdì. Gli ospedali pubblici hanno reso i piatti vegetariani l’opzione predefinita, anche se i pazienti che desiderano la carne possono ancora averla. L’annuncio di Adams suggerisce che nei prossimi anni la città servirà ancora meno carne nelle sue strutture. Anche ristoranti e locali privati si stanno adattando alla novità e le opzioni vegane sono in aumento nella megalopoli americana.

Torniamo a parlare di Iran: la novità principale non arriva in questo caso dall’interno del paese ma dall’esterno. ieri infatti Regno Unito, Stati Uniti ed Unione europea hanno annunciato in un’iniziativa congiunta un nuovo pacchetto di sanzioni annunciato contro l’Iran che prende di mira il corpo delle Guardie rivoluzionarie islamiche, i cosiddetti Pasdaran, accusati di avere responsabilità nella “brutale repressione” degli oppositori in corso in Iran e di violazione dei diritti umani.

Nel mirino dell’iniziativa sono finite 70 persone ed entità, come i comandanti dei Pasdaran e le autorità giudiziarie, che se sommate ai precedenti pacchetti di sanzioni raggiungono un totale di 300. 

Un’iniziativa che, mi pare, vada nella direzione richiesta dai manifestanti e dalle manifestanti iraniane. Se avete ascoltato la puntata di INMR di mercoledì scorso avrete ascoltato anche il contributo di Reza, rifugiato iraniano che ci aveva aggiornato sulla situazione nel suo paese. In una seconda parte del suo contributo, che adesso vi faccio ascoltare, Reza mi ha detto proprio che cosa potremmo fare noi persone che vivono in altri paesi, e i nostri governi, per aiutare e sostenere chi in Iran si ribella contro il regime teocratico.

Chiudiamo con un po’ di aggiornamenti volanti. Negli Usa ieri Biden ha annunciato in un video che si candiderà per un nuovo mandato alla presidenza del paese, alle elezioni del 2024.

C’è un nuovo tentativo di tregua in Sudan, negoziato dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita, dopo che tutti i tentativi precedenti erano falliti

Infine segnalo un articolo, che trovate sempre sotto FONTI E ARTICOLI, che racconta il concetto cinese di civilizzazione ecologica, una sorta di risposta allo sviluppo sostenibile, altrettanto piena di contraddizioni ma anche in una certa misura interessante.

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