La Local March for Gaza è arrivata a Roma, ma non ha consegnato le firme – 4/11/2025
La Local March for Gaza arriva a Roma per consegnare le firme a Mattarella, mentre il mondo si prepara alla Cop30 tra dubbi sulla finanza climatica. Intanto in Italia scompare il decreto energia e in Spagna si dimette il presidente della Comunità Valenciana.
Questo episodio é disponibile anche su Youtube
Fonti
#Local March for Gaza
Pressenza – Le Local March for Gaza in Parlamento
Italia Che Cambia – Local March for Gaza: una marcia per la pace e per un miraggio
#cammini
Italia che Cambia – Santiago e dintorni: il turismo lento e la sfida del sovraffollamento dei cammini
#COP30
Il Fatto Quotidiano – COP30 in Brasile: un nuovo passo dopo l’Accordo di Parigi
Economia Circolare – COP30: finanza climatica e le sfide dell’UE
#aree idonee
Il Post – Il decreto energia: il blocco per le aree idonee
#Valencia
Il Post – Carlos Mazón si dimette dalla Comunità Valenciana dopo la tragedia delle alluvioni
#Louvre
Il Post – Sicurezza al Louvre: il furto e le falle nei sistemi
Trascrizione episodio
Qualche giorno fa vi abbiamo raccontato su ICC che la Local March for Gaza sarebbe arrivata a Roma il 2 novembre e avrebbe consegnato le firme raccolte durante i percorsi al Presidente della Repubblica Mattarella. O meglio, avrebbe dovuto consegnare, col senno di poi. Ma ci arriviamo.
La Local March for Gaza è un’iniziativa di cui ICC è partner che è nata la scorsa estate, dopo il fallimento della Global march to Gaza. La Global March era questa grande marcia globale che voleva entrare a Gaza dall’Egitto, attraverso il valico di Rafah rompendo l’embargo israeliano agli aiuti umanitari.
Non è arrivata nemmeno vicina alla meta perché le autorità egiziane l’hanno subito fermata, prima ancora che partisse. Dal fallimento di questa iniziativa sono nate due cose, simili e opposte, la Global Sumud Flotilla, altra iniziativa internazionale che ha provato a quel punto ad accedere via mare acquistando una flotta di barche a vela, e in Italia la Local March for Gaza, che invece nasceva inizialmente come un’iniziativa locale nel Biellese, sul Cammino di Oropa, per portare la protesta su una scala e un ritmo diversi, quelli dei sentieri, dei paesi, dei territori interni.
L’iniziativa si è poi allargata, e così negli ultimi mesi, mentre le piazze italiane si riempivano di centinaia di migliaia di persone che protestavano contro il genocidio in corso a Gaza e chiedevano al nostro governo di smettere di esserne complice, parallelamente lungo decine di cammini d’Italia centinaia di persone scandivano a piedi le stesse richieste. Non in alternativa o opposizione a quei movimenti di piazza, ma in maniera complementare. Tanto la piazza è rumorosa, veloce e adrenalinica, tanto il rito del camminare è introspettivo, lento, spirituale (in qualsiasi senso lo si intenda). Permette di sedimentare le informazioni e le emozioni, di avere tempo per parlare con le persone che si incontrano, di stringere delle relazioni. Con numeri diversi, ma con una profondità anche diversa.
La Local march è una somma di piccole iniziative, di tanti cammini, al momento sono almeno 30, ma percorsi come un unico movimento, sparpagliato per il Paese, ma con una cornice e un obiettivo comune. Ad ogni tappa di qualsiasi cammino i partecipanti venivano accolti da un paese diverso, leggevano una petizione per chiedere alle istituzioni italiane di dichiarare il sostegno a un cessate il fuoco immediato e permanente a Gaza e in Cisgiordania; sospendere le esportazioni di armi e componenti militari verso Israele, garantire accesso umanitario immediato e illimitato alla Striscia, condannare la violenza contro i civili e promuovere percorsi di pace e dialogo.
Nel frattempo che le marce andavano avanti, è arrivato il cessate il fuoco a Gaza. Un cessate il fuoco che però abbiamo visto essere molto fragile, e già violato decine di volte, con spesso nuovi massacri da parte dell’esercito israeliano. Perciò la local march ha deciso di proseguire. Tutte le strade però, si sa, portano a Roma.
E quindi l’idea era che tutti questi cammini confluissero a Roma, il 2 novembre, per un’ultima tappa simbolica, laddove tanti cammini spirituali tradizionali terminavano, e in occasione di una data simbolica per la storia palestinese, segno dell’inizio dell’ingiustizia, perchè il 2 novembre è la ricorrenza della Dichiarazione Balfour con cui, il 2 novembre 1917, la Gran Bretagna tradì le aspirazioni d’indipendenza della Palestina.
Vi faccio vedere un video (ma potete tranquillamente ascoltare anche solo l’audio) montato dagli organizzatori della marcia che racconta la giornata romana, ma anche un po’ tutto il senso dell’iniziativa.
Comunque, il giorno dopo, ieri mattina, 3 novembre, tutte le firme raccolte durante i cammini, che alla fine erano più di 8mila, tutte raccolte a mano, da persone in carne e ossa, con cui c’era stato un dialogo, dovevano essere consegnate nelle mani del PdR.
Solo che qui qualcosa è andato storto.
Cosa è andato storto ve lo faccio raccontare da Nazarena Lanza, una delle organizzatrici della Local March:
Contributo disponibile all’interno del podcast
Quindi buon cammino alla Local March, noi continueremo a raccontarvela sulle pagine di ICC! Fra l’altro vi segnalo che, a proposito di cammini, oggi pubblichiamo un pezzo che parla di over tourism sui cammini e di quali sono le possibili soluzioni a questo fenomeno di sovraffollamento che sta stravolgendo alcuni percorsi storici, a partire dal Cammino di Santiago, Lo trovate fra le fonti.
Manca poco eh! Manca davvero poco. Il 10 novembre inizia ufficialmente la trentesima conferenza sul clima, in Brasile, a Belem. E questa volta è preceduta dal summit dei leader, quindi da un incontro di due giorni, il 6 e 7, giovedì e venerdì, in cui i leader di molti dei paesi che partecipano si trovano per fare il punto.
Essendo così a ridosso molti giornali iniziano a chiedersi come arriva il mondo a questo appuntamento cruciale, che arriva a dieci anni dall’Accordo di Parigi e che si svolge nel cuore dell’Amazzonia, uno dei principali polmoni del pianeta, dove l’impatto delle attività umane è sotto gli occhi di tutti.
Un articolo del FQ racconta quali sono i punti principali sul tavolo dei negoziati. Il primo, è dare delle gambe molto concrete alla nuova finanza climatica, poi rimettere l’adattamento in prima linea con soldi e regole misurabili, e infine concretizzare la formula scritta a Dubai sulla transizione in uscita dai combustibili fossili.
Il punto nodale di questa COP sembrerebbe però essere quello sulla finanza climatica. Sarebbe il meccanismo con cui si mobilitano i soldi necessari per la transizione energetica, l’abbandono delle fonti fossili, l’adattamento climatico, il recupero dopo i disastri legati alla crisi climatica, insomma risponde alla domanda. “Come si pagano tutte le cose che il cambiamento climatico rende necessario fare?” Chi caccia i soldi? Visto che il cambiamento climatico è un fenomeno molto asimmetrico, nel senso che viene causato soprattutto dai paesi ricchi e industrializzati ma i suoi effetti ricadono spesso sui paesi più poveri, alla base della finanza climatica c’è anche il concetto che i paesi più ricchi dovrebbero finanziare in vari modi e con vari scopi i Paesi più vulnerabili.
E qui ci sono un sacco di problemi, come sempre quando si parla di soldi e di chi paga, perché anche se il principio di base dovrebbe essere “chi è responsabile paga”, ogni paese cerca di imporre il proprio modo di calcolare chi è responsabile, per pagare il meno possibile, o ricevere il più possibile.
Gli obiettivi definiti alla cop 29 dello scorso anno a Baku sono ambiziosi dal punto di vista climatico. Si parla di triplicare i fondi che i paesi ricchi danno ai paesi più poveri, passando dai 100 mld all’anno attuali ad almeno 300 entro il 2035, e di mobilitare complessivamente, sempre entro quella data, 1300 miliardi di euro all’anno di finanza climatica, considerando tutti gli attori, pubblici e privati e tutti i paesi.
Un obiettivo che al momento sembra davvero fuori portata, se osserviamo le cifre attuali. E non è nemmeno solo una questione di numeri. Perché come sempre è utile andare a scavare un po’ e vedere che cosa finanzia la finanza climatica.
Un articolo su Economia Circolare racconta che in Italia la finanza climatica è affidata al Fondo Italiano per il Clima, che movimenta 840 mln €/anno. Finora ha impegnato solo un terzo delle risorse disponibili e il primo progetto che ha finanziato è andato, indovinate un po’, a Eni per finanziare la creazione di biocarburanti in Kenya. Quindi è andato all’azienda che è storicamente più responsabile della crisi climatica, fra quelle italiane, e per finanziare un progetto che è molto congeniale al business as usual, perché i biocarburanti sono perfettamente complementari a un sistema che continua a basarsi sulle fonti fossili, mentre sappiamo che la strada più sensata è quella dell’elettrificazione. Per dire.
Un articolo del Post racconta che in Italia è sparito il decreto energia. È atteso da mesi, il governo continua a rinviarlo, ora ha smesso proprio di parlarne. È il decreto che avrebbe dovuto fare qualcosa per stoppare il caro energia. Ed è fermo per la questione delle aree idonee, ovvero le aree su cui si possono costruire impianti di produzione di energia rinnovabile, che sono in mezzo a una serie di dispute giuridiche e territoriali. Le aree idonee sono un aspetto importantissimo, ma marginale nel decreto, ma stanno bloccandso tutto il decreto con conseguenze pesanti su imprese e cittadini.
Intanto ieri In Spagna si è dimesso il presidente della Comunità Valenciana, Carlos Mazón, da un anno oggetto di molte critiche per il modo deficitario in cui il suo governo regionale gestì l’allerta e la risposta alle gravi alluvioni del 29 ottobre del 2024, che causarono la morte di 229 persone. Ieri ad esempio vi abbiamo raccontato su ICC della protesta di XR a Valencia.
Infine, scusate ma questa ve la devo dire, è stato scoperto come hanno fatto i ladri del Louvre ad aggirare la sorveglianza. Avrete sentito immagino del grande furto che c’è stato al famosissimo museo di Parigi. Ecco, pare che il Louvre utilizzasse sistemi di sicurezza diciamo un po’ obsoleti, ad esempio usava sistemi operativi come Windows 2000 e Windows XP, il che fa dei responsabili del Louvre dei paladini nella lotta contro l’obsolescenza digitale, ma di certo non a prova di hacker, perché i programmi non si potevano aggiornare più da anni. Ma la cosa più bella è che la password per accedere ai pannelli di videosorveglianza era “Louvre”. Che sono quelle cose geniali, non so se frutto di inedia o di pensiero strategico. Mi spiego: sarà stato un impiegato prossimo alla pensione vent’anni fa a mettere questa password in un momento di scarsa immaginazione, e poi nessuno l’ha mai cambiata, oppure qualcuno ci avrà riflettuto per arrivare a concludere: è la password perfetta, nessuno penserà che siamo così stupidi da provare a scrivere LOUVRE. Spoiler, non era geniale.
Mi fa venire in mente quando ogni anno esce la classifica delle password più comuni degli utenti e nella top 3 c’è sempre password. No, non funziona. Non è geniale.
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