Referendum, quorum lontano. Dai primi dati l’affluenza è al 30%
Il quorum del 50%+1 degli aventi diritto è rimasto molto lontano. Un insuccesso che apre a profonde riflessioni sulla democrazia e sul senso dei referendum.

Il quorum non è stato raggiunto. I cinque referendum abrogativi promossi dalla Cgil e da altre organizzazioni e sostenuti da Partito Democratico, Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra si chiudono con un’affluenza attorno al 30 per cento. Già nella serata di domenica era emerso con chiarezza che la soglia del 50 per cento più uno non sarebbe stata raggiunta.
Si tratta di un risultato molto deludente per i promotori, che avevano investito nella consultazione sia in termini politici che simbolici. Dei cinque quesiti, quattro riguardavano temi legati al lavoro – tra cui l’abolizione del Jobs Act e il reintegro sul posto in caso di licenziamento illegittimo – mentre il quinto proponeva un’estensione dell’acquisizione della cittadinanza. Nessuno di questi avrà ora effetti normativi.
Secondo Lorenzo Pregliasco, analista di YouTrend, il dato di affluenza è “molto basso anche rispetto ai precedenti referendum”. Il confronto più immediato è quello con il quesito sulle trivellazioni del 2016, che pur in assenza di un’ampia mobilitazione superò il 31 per cento. Una soglia che oggi, salvo sorprese dell’ultima ora, non verrà nemmeno eguagliata.
La partecipazione più significativa si è registrata nelle grandi città e nelle regioni del Centro Italia, con un coinvolgimento marcato di settori dell’elettorato progressista. Ma l’astensione è rimasta prevalente nel resto del Paese, riflettendo una distanza crescente tra iniziative referendarie e interesse popolare. La maggioranza di governo ha scelto di non intervenire direttamente nel dibattito, limitandosi a osservare l’andamento della campagna senza dichiarazioni ufficiali.
Il fallimento del quorum conferma una tendenza ormai consolidata. Negli ultimi dieci anni, la maggior parte delle consultazioni referendarie ha registrato una partecipazione inferiore al 50 per cento. Dopo il successo del referendum costituzionale del 2016, che vide un’affluenza del 65,5 per cento e fu però di tipo confermativo, i successivi referendum abrogativi hanno fatto segnare tassi di partecipazione sempre più contenuti: nel 2022, i cinque quesiti sulla giustizia si fermarono tra il 20 e il 21 per cento. Ancora prima, nel 2016, il referendum contro le trivellazioni in mare raggiunse il 31,2 per cento. Il quadro che ne emerge è quello di uno strumento sempre meno efficace e percepito, spesso ridotto a terreno di battaglia tra identità politiche più che momento di effettiva deliberazione popolare.
Una tendenza già notata in tempi non sospetti dal giurista Stefano Rodotà, che già nel giugno 1990 a commento del referendum sulla caccia pubblicava su Repubblica un’analisi lucida del trend in declino dello strumento referendario.
Secondo Rodotà, l’insuccesso referendario non sarebbe una patologia del sistema, ma un evento previsto dalla Costituzione e, in fondo, del tutto legittimo: l’astensione può essere una scelta politica, non una colpa civica. Ciò che è inaccettabile, per il giurista, è fingere che tutto questo non fosse prevedibile. I fattori, per Rodotà, erano chiari: controinteressi organizzati, stanchezza dell’elettorato, debolezza dell’informazione, uso strumentale del referendum da parte dei partiti, e soprattutto la sensazione diffusa che anche vincere non avrebbe prodotto cambiamenti reali, perché in ogni caso sarebbe servito un nuovo intervento del Parlamento.
Il fallimento dei referendum 2025 potrà essere l’occasione per una seria analisi politica e sociale sull’utilizzo di questo strumento?
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