NATO, spese militari al 5%. Che significa davvero e che conseguenze avrà? – 26/6/2025
La NATO punta al 5% del PIL in armi, mentre la Svezia abolisce le gabbie per le galline. A Venezia, il matrimonio di Bezos scatena proteste.

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Fonti
#spese militari
The Guardian – Nato leaders confirm defence spending will rise to 5% of GDP and say support for members is ‘ironclad’ – Europe live
Domani – «Caro Donald, l’Ue pagherà alla grande». La figuraccia globale del segretario Nato
Facebook – Post di Pietro Cambia
#galline
Italia che Cambia – La Svezia è il primo paese al mondo a non avere più galline allevate in gabbia
#Bezos
Italia che Cambia – A Venezia Extinction Rebellion sta contestando Jeff Bezos. Tassare i ricchi per una transizione giusta
Italia che Cambia – A Venezia Greenpeace ha esposto un maxi striscione contro Jeff Bezos durante le nozze miliardarie
Trascrizione puntata
A volte l’asetticità dei numeri è una fregatura. Sono freddi, sterili, non ci trasmettono emozioni e quindi non ci spingono all’azione. Ma c’è un numero che ha trovato la sua definitiva consacrazione nella giornata di ieri che se lo comprendessimo dovrebbe farci arrabbiare. E non poco.
Questo numero è in realtà una percentuale. 5%. Ed è la quantità di prodotto interno lordo che ogni Paese Nato si impegna a dedicare alle spese per la difesa, le spese militari. Ora arriviamo al perché dovrebbe farci arrabbiare, ma intanto vi ricapitolo cosa è successo.
Ieri c’è stato un vertice Nato all’Aja, nei Paesi Bassi, in cui tutti i paesi membri dell’alleanza nordatlantica, a eccezione della Spagna di Pedro Sanchez, si sono accordati, fra le altre cose, per impiegare il 5% del pil in armamenti entro il 2035. Leggo su Repubblica:
“Il summit di Trump”. Così Marco Rubio definisce, in un’intervista a Politico, il vertice della Nato in corso all’Aja che sancisce la vittoria della linea del presidente, avviata già nel suo primo mandato, di chiedere un aumento della spesa militare da parte degli alleati. “La combinazione della pressione del presidente Trump, sin dalla sua prima amministrazione, e poi l’invasione e la guerra in Europa da parte di Vladimir Putin hanno spinto ora praticamente ogni partner della Nato ad impegnarsi a raggiungere l’obiettivo del 5%, con l’eccezione, purtroppo, della Spagna”, ha detto il segretario di Stato Usa. Per Rubio la posizione di Madrid, che ha chiesto e ottenuto di rimanere fuori dall’obiettivo del 5%, “è un grande problema”. “Non penso che l’accordo che la Spagna ha raggiunto sia sostenibile e francamente questo li mette in una posizione molto difficile nei confronti degli alleati e partner”
Ora, per capire cosa questa roba significa però dobbiamo fare un’operazione di confronto, che ha fatto già benissimo Pietro Cambi in un post su facebook. Pietro è un blogger, ingegnere ambientale ed esperto di energie rinnovabili, ma devo dire esperto un po’ di qualsiasi cosa, per quanto lo conosco. Che scrive:
“Però, via, in fondo il 5%… brutta storia ma ce la possiamo fare, vero?
No. Non ce la possiamo fare.
Non senza tagli inauditi alla sanità alla previdenza ed alla scuola, laddove riesca.
Il problema è la percezione sbagliata della cosa, non casuale, ovviamente.
Il 5% del pil, intanto vale circa il 12% degli introiti statali. Già diverso, vero?
Poi vorrei dare un quadro sintetico delle spese dei principali attori: gli USA dedicano alla difesa il 3.5%, oggi.
La Cina l’ 1,9%
La Russia, paese in guerra, il 5,9% OGGI.
Pare che arriverà al 6.9% a fine anno.
L’ucraina: il 34%, l’ucraina ha un’economia di guerra, di fatto.
Il 5% porterà la Nato a raddoppiare o triplicare la sua forza militare.
Ora i numeri diretti italiani, che possono aiutare a capire di che disastro parliamo:
1) il 5% del pil attuale sono circa 100 miliardi di euro all’anno.
2) l’educazione IN TOTALE, ci costa il 3,7% all’anno, una cifra fatta quasi solo di stipendi, avendo tagliato quasi ogni investimento, escludendo il Contributo una tantum del PNRR, che peraltro già viene dirottato anche quello, se ci riusciranno, verso le armi.
Il 90% della spesa scolastica, sono stipendi.
Le scuole cadono a pezzi, salvo qualche raro caso in fase di ristrutturazione da PNRR, vengono chiuse ovunque, condannando intere comunità alla morte generazionale.
Qui non c’è più niente da tagliare.
3) la sanità ci costa l’8.9% all’anno.
4) il sistema previdenziale pubblico circa il 16%.
Il resto sono spiccioli.
La ricerca in Italia? Quella pubblica molto meno dell’1% , quella privata idem, una delle spese più piccole di tutti i paesi avanzati…
Quindi, giunge a concludere Cambi il taglio arriverà su sanità e pensioni. Gli unici settori che possono permetterselo. Si fa per dire. Ad esempio: aumento del ticket minimo ed aumento dell’età pensionabile.
Non vi sto a rifare tutti i calcoli esatti riportati nel post, ma giusto per dare un termine di confronto, per raggiungere un 1% di Pil da dedicare alla spesa militare bisognerebbe moltiplicare per 12 il ticket sanitario. Vorrebbe dire pagare 375 euro per esame diagnostico, o 480 euro per visita specialistica. Per solo un 1% di pil.
Ne mancherebbero ancora 2.5 per arrivare al 5%… (perché l’Italia oggi spende circa l’1,5% del pil in spese militari).
2) per quel che riguarda invece l’aumento dell’età pensionistica sono 1.5 anni ogni un percento di pil risparmiato.
Beh, va meglio, no? Si può sempre andare in pensione tre o quattro anni dopo et voila’….
3) In alternativa, si possono sempre aumentare i contributi del 25%….
Insomma, capite quanto gigante è questo impatto? Su un paese in cui fra l’altro non è che la sanità pubblica e l’istruzione siano messe benissimo e in cui persone e aziende sono già molto tassate.
Pietro Cambi poi si spinge a fare un passetto successivo, che vi leggo:
“Ora: se la sanità pubblica arriva a costare più di quella privata, viva quella privata, no?
Se il sistema pensionistico peggiora sempre più, costa sempre più ed offre prestazioni peggiori, viva il sistema pensionistico privato, vero?
Qualcuno si ricorderà PERCHÉ?
Beh, basta non parlarne mai, non scriverne manco per sbaglio.
Magari.
I complotti con la h vanno da poche parti ed evaporano alla luce dei fatti e della ragione.
Nella notte della ragione, ieri, qualcuno rideva.
Come nel 2009 dopo l’Aquila.
Ricordate?”
Insomma, questo è il quadro. Nei giorni scorsi ho intervistato diversi giovani iraniani/e che mi raccontavano come una delle peggiori cose fatte dal regime degli ayatollah, da Khamenei, è quella di aver puntato tutto sul programma nucleare, in un paese in cui le infrastrutture e i servizi cadono a pezzi. Ecco, stiamo facendo lo stesso. In blocco, a eccezion fatta della Spagna, che viene trattato come un paria (Trump ha detto, col suo solito fare da bullo, se ne penstiranno, li faremo pagare due volte).
Dovremmo investire miliardi non solo in sanità e istruzione, ma in adattamento climatico, conversione ecologica, servizio idrico integrato e invece stiamo scegliendo di non fare tutte queste cose, anzi di depotenziare questi processi perché sì, anche se indirettamente lo stiamo scegliendo, per produrre armi. Un sacco di armi che se tutto va bene non useremo mai, perché ci raccontiamo che sono solo per la difesa, per la deterrenza.
Intanto, sappiamolo. Perché i numeri, le cifre, non sono mai solo numeri. Hanno conseguenze.
La Svezia è ufficialmente il primo paese al mondo che ha messo fine all’allevamento in gabbia per le galline ovaiole. E lo ha fatto in assenza di una legge che lo vieti esplicitamente e grazie al costante lavoro di sensibilizzazione, lobbying e advocacy a livello politico e aziendale portato avanti dalle Organizzazioni non governative.
La storia di come in Svezia si è giunti a questo storico traguardo è tanto complessa quanto istruttiva, e l’abbiamo raccontata ieri in una nostra news, di cui vi leggo alcune parti. Nel 1988 il Parlamento svedese aveva in realtà deciso di vietare l’allevamento dei polli in gabbia, approvando l’Animal Welfare Act (legge sul benessere animale) che introduceva fra le altre cose questo divieto. L’abolizione doveva compiersi con una transizione decennale, ma al termine di questo periodo, nel 1999, le gabbie non erano state ancora del tutto eliminate.
La legge venne quindi emendata dal parlamento. Al posto del divieto totale di allevamento in gabbia, furono vietate solo le cosiddette battery cages. Si tratta di gabbie strettissime e spoglie, dove le galline non possono nemmeno aprire le ali. Negli anni successivi, le battery cages sono effettivamente andate scomparendo e in più è stato introdotto l’obbligo di etichettatura delle uova, in modo da permettere scelte più consapevoli alle persone.
Sono però rimaste le cosiddette enriched cages (o furnished cages), cioè gabbie “arricchite”. Si tratta di gabbie che presentano al loro interno piccoli nidi per la deposizione, un maggiore spazio rispetto alle battery cages, dei posatoi (o perche, aste orizzontali su cui le galline possono appollaiarsi e riposare e una lettiera per razzolare.
Una svolta importante arriva con la nascita di Project 1882, un’iniziativa svedese per il benessere animale legata a Djurens Rätt, la più antica associazione per la protezione degli animali in Svezia (fondata proprio nel 1882, da cui il nome). Il progetto ha un obiettivo chiaro: eliminare del tutto le gabbie per le galline ovaiole, lavorando non attraverso leggi, ma convincendo aziende, supermercati e grossisti a cambiare politica.
Nel 2008 quando Project 1882 lancia la sua prima campagna aziendale contro le uova da galline in gabbia. Hemköp è il primo supermercato a schierarsi. Ai tempi ancora il 40 % delle galline svedesi viveva in gabbie. Negli anni seguenti, altre grandi catene come Coop, Willys, Lidl, Netto e City Gross seguono l’esempio, e questo fa rapidamente crollare la percentuale di galline in gabbia. Il progetto non si ferma alle uova fresche: convince le aziende a escludere le uova da gabbia anche come ingredienti nei prodotti a marchio proprio. Intanto i grossisti, i comuni e infine anche l’ultimo grande rivenditore, ICA, aderiscono.
Tra il 2024 e il 2025 il cambiamento si completa: oltre 85 aziende hanno adottato impegni ufficiali, e Project 1882 riceve la conferma che tutte le gabbie in Svezia sono ormai vuote. In totale, almeno 17 milioni di galline sono state salvate da una vita dietro le sbarre grazie a questo lungo lavoro di pressione, dialogo e sensibilizzazione.
Parallelamente, Project 1882 ha contribuito a spingere la Commissione europea a promettere un divieto delle gabbie con l’iniziativa End the Cage Age. La Commissione deve ancora esaminare la proposta: aveva promesso una legge per il 2023, poi posticipata al 2026, che dovrebbe portare a un divieto progressivo e totale delle galline in gabbia in tutta l’Ue.
In questi giorni Venezia è una città blindata. E non c’è in questo caso nessun incontro fra capi di stato, G7, G20, vertici Nato. No, c’è un matrimonio fra un tizio e una tizia, Solo che la tizia si chiama Lauren Sanchez, è una giornalista e imprenditrice, e soprattutto il tizio si chiama Jeff Bezos, ed è il patron di Amazon.
Una cerimonia super esclusiva con circa 200 invitati – tra cui, secondo indiscrezioni, ci sarebbero anche Elon Musk, Kim Kardashian, Leonardo DiCaprio, Oprah Winfrey, Ivanka Trump e altri ospiti del gotha economico-culturale planetario – con annesso sbarco di massa di jet privati: pare che all’aeroporto di Venezia siano attesi almeno 95 voli privati solo per l’occasione.
E ovviamente, come spesso accade quando il lusso si insinua senza chiedere permesso in spazi pubblici già fragili e sovraccarichi, le proteste non si sono fatte attendere. Ne abbiamo parlato diffusamentew su ICC in questi giorni. Greenpeace, Extinction Rebellion e il collettivo britannico Everyone Hates Elon si sono mobilitati in diverse forme per denunciare l’assurdità della situazione. Tra le azioni più simboliche e creative: la minaccia – evidentemente ironica ma anche inquietantemente efficace dal punto di vista comunicativo – di riempire i canali di Venezia con coccodrilli gonfiabili, che ha addirittura costretto Bezos a cambiare all’ultimo il luogo della festa, spostandola dall’elegante Scuola Grande della Misericordia all’Arsenale.
Gli attivisti hanno anche appeso striscioni visibili in città, come quello emblematico che recita: “If you can rent Venice for your wedding, you can pay more taxes” – se puoi affittare Venezia per il tuo matrimonio, allora puoi anche pagare più tasse. Un messaggio diretto e chiaro che sintetizza bene il nodo del problema: l’enorme divario tra l’opulenza di pochi e le difficoltà crescenti di molti. Venezia, già alle prese con gli effetti devastanti del turismo di massa, dell’innalzamento del livello del mare e della gentrificazione, viene ulteriormente trasformata in un palcoscenico a uso esclusivo dei super-ricchi, con la benedizione delle autorità locali che si giustificano parlando di ricadute economiche e donazioni – pare che Bezos abbia elargito un milione di euro per la tutela della laguna.
Ma quello che raccontano le proteste è anche un’altra storia: una città che si sente espropriata, trasformata in set cinematografico e bene di consumo, con i suoi abitanti ridotti a comparse silenziose. E in fondo, la questione non è solo veneziana. Parla di un mondo in cui le disuguaglianze crescono, in cui i più ricchi possono permettersi non solo di eludere il fisco, ma anche di plasmare intere città per eventi privati blindati, mentre fuori le persone protestano, spesso ignorate o derise.
Insomma, tra coccodrilli gonfiabili, jet privati e striscioni che graffiano, questo matrimonio è diventato il simbolo di un sistema che traballa, in cui la realtà dei molti si scontra ogni giorno con l’immaginario dorato dei pochi. E approfittare delle luci della ribalta fornita da questi eventi per rendere evidenti questi paradossi mi sembra una scelta sensata.
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