Salviamo Gaza: storie di guerra, fame e speranza – 22/5/2025
Gaza tra guerra e solidarietà, PFAS e giustizia ambientale, Cina e clima, cohousing e relazioni: tante crisi, ma anche segnali di speranza.

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Fonti
#Gaza
Go Fund Me – Hot meals 4 Starved Palestinian Kids in north Gaza
The Guardian – Wong condemns ‘abhorrent and outrageous’ comments by Netanyahu government members as global fury grows
Limes – L’operazione Carri di Gedeone di Israele a Gaza e altre notizie interessanti
Valigia Blu – Israele avvia l’operazione Carro di Gedeone: è pulizia etnica
The Guardian – Israel still blocking aid for Gaza despite promise to lift siege, says UN
#PFAS
Greenpeace – Il Tribunale di Vicenza ha riconosciuto il primo decesso da PFAS in Italia
#Cina
Facebook – Il picco di emissioni della Cina
#cohousing
Italia che Cambia – Relazioni – Cerco casa e comunità #4
#Sicilia
Sicilia che Cambia – Sicilia e nuovi termovalorizzatori: ha senso bruciare i rifiuti?– INMR Sicilia #14
Circa un anno fa, due fratelli di Beit Lahia, una cittadina nel Nord della Striscia di Gaza, che rispondono ai nomi di Hani e Mahmoud Almadhoun hanno creato Soup Kitchen. Una piccola organizzazione che aveva l’obiettivo di fornire pasti caldi a chi ne aveva bisogno. Inizialmente, la cucina serviva circa 150 famiglie al giorno, ma con l’ingigantirsi della crisi umanitaria è arrivata a sfamare, pensate, fino a 3.000 persone quotidianamente.
Mahmoud, noto come “Chef Mahmoud”, coordinava le attività sul campo, mentre Hani, dagli Stati Uniti, si occupava della raccolta fondi. Nonostante le difficoltà, tra cui la carenza di ingredienti e il pericolo costante, la cucina ha continuato a operare, a cucinare pasti caldi, nutrienti e variati, come il maftoul palestinese e le zuppe di verdure.
Purtroppo, il 30 novembre 2024, Mahmoud è stato ucciso in un attacco con drone israeliano mentre consegnava prodotti freschi all’ospedale Kamal Adwan. Ma nonostante questa tragica perdita, la Gaza Soup Kitchen ha continuato la sua missione, con circa 45 membri dello staff che lavorano oggi in diverse località del nord e sud di Gaza. Su Go Fund Me c’è una raccolta fondi aperta che ha raccolto, pensate, quasi 40mila donazioni per un totale di circa 3,5 milioni di dollari.
Storie come questa, che ho appreso leggendo un articolo su Al Jazeera, ci restituiscono una dimensione molto umana, la straordinaria resilienza di una popolazione che anche allo stremo delle forze riesce a trovare la forza per andare avanti. Ma ci spingono a chiederci, a chiedermi anche a me in prima persona, noi cosa stiamo facendo? Cosa possiamo fare?
Facciamo un passo indietro. La situazione a Gaza continua a peggiorare. Lo so che lo diciamo quasi ogni volta, e uno può chiedersi come sia possibile, ma è la triste realtà. Alle 15,30 di domenica 18 maggio è scattata l’operazione Carri di Gedeone, che nell’ottica del governo estremista di Benjamin Netanyahu dovrebbe essere l’offensiva finale, quella per instaurare una occupazione permanente di Gaza da parte dell’esercito israeliano.
Come spiega Limes, le Forze armate di Israele hanno bombardato e stanno bombardando intensamente sia il Nord sia il Sud dell’exclave palestinese e colpendo anche ospedali e campi profughi. Almeno 144 gazawi avrebbero perso la vita solo nelle prime ore.
Durante i colloqui in Qatar il governo israeliano ha posto delle condizioni molto complicate: ha detto che un accordo per la cessazione delle ostilità potrà avvenire solo con la liberazione degli ostaggi, l’esilio dei vertici del Movimento islamico per la resistenza della Palestina e il disarmo totale della Striscia.
L’unica piccola buona notizia, non so nemmeno se si può chiamare così, è che contestualmente Netanyahu ha ordinato di rimuovere il blocco agli aiuti umanitari e consentirne almeno un parziale ingresso, mettendo fine a un blocco che durava da oltre due mesi. Solo che nella realtà non sembra essersi sbloccato molto. Gli aiuti umanitari restano praticamente fermi. Jens Laerke, che sarebbe il portavoce dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), ha dichiarato che solo cinque camion di aiuti sono entrati a Gaza, e nessuno di questi ha potuto distribuire i beni trasportati. Altri 100 camion sono stati approvati ma non hanno ancora ricevuto l’autorizzazione per attraversare il confine. Mentre prima del blocco, circa 500 camion al giorno fornivano beni essenziali alla popolazione di Gaza.
La fame si sta diffondendo rapidamente. Il capo umanitario delle Nazioni Unite, Tom Fletcher, ha avvertito che circa 14.000 neonati rischiano di morire di fame entro nelle prossime ore se non riceveranno immediatamente aiuti umanitari.
Attualmente a gestire gli aiuti umanitari, che però, ripeto, non ci sono, dovrebbero essere due organismi internazionali: il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (Wfp) e la ong statunitense World Central Kitchen (Wck). Ma a breve il tutto dovrebbe passare nelle mani di una nuova ong, piuttosto controversa, ovvero la Gaza Humanitarian Foundation, frutto di un accordo fra governo israeliano e governo americano, apertamente criticata dall’Onu e monitorata da contractor americani. Una roba da cui non sappiamo bene cosa aspettarci. Quindi ecco, la situazione là è questa, e esperienze come quella di Soup Kitchen stanno diventando fondamentali per la sopravvivenza di migliaia di persone.
Nel mondo fuori però un po’ di cose succedono. Ad esempio sta continuando a montare il supporto mondiale alla causa palestinese: la comunità globale non sembra più disposta a tollerare passivamente quanto sta accadendo.
E non parlo solo di iniziative dal basso. Ad esempio il governo Starmer nel Regno Unito ha annunciato la sospensione delle trattative per un accordo di libero scambio con Israele, e ha convocato l’ambasciatore israeliano per chiarimenti. Starmer stesso ha descritto la situazione a Gaza come “orribile” e “assolutamente intollerabile”.
Il Parlamento spagnolo ha approvato a larga maggioranza una legge che impone un embargo totale sulla vendita di armi, carburanti e materiali a doppio uso a Israele. Una norma, soprannominata “Ley de Gaza”, che prevede anche il divieto di transito nei porti e aeroporti spagnoli per navi e aerei che trasportano materiale bellico destinato a Israele. Il primo ministro Pedro Sánchez ha definito pubblicamente Israele uno “Stato genocida”, dichiarando che la Spagna “non commercia con uno Stato genocida”.
A livello europeo, anche la Commissione Europea ha deciso di rivedere l’accordo commerciale con Israele, un passo storico spinto dall’indignazione pubblica e dal pressing di paesi come Irlanda, Spagna e Paesi Bassi. Spagna, Irlanda, Norvegia a breve la Francia hanno anche riconosciuto pienamente lo stato di Palestina.
E anche dentro a Israele si iniziano a moltiplicare le voci critiche, al punto che il gpoverno ha aumentato anche la repressione interna. Alcuni attivisti anti-guerra israeliani che manifestavano con immagini di bambini palestinesi uccisi sono stati arrestati e messi agli arresti domiciliari. Tra loro anche Alon-Lee Green, co-direttore del movimento misto israelo-palestinese Standing Together, che ha denunciato la doppia morale dello Stato israeliano: da un lato reprime i pacifisti, dall’altro consente ai coloni estremisti di entrare illegalmente a Gaza e organizzare conferenze sul reinsediamento con l’appoggio tacito delle autorità.
E mentre il premier Netanyahu insiste nel voler proseguire la guerra, il leader dell’opposizione Yair Golan – ex vicecapo di Stato Maggiore – lo accusa di aver trasformato una guerra giusta contro Hamas in una “guerra corrotta” contro la popolazione civile. “Un paese sano non uccide bambini per hobby”, ha dichiarato Golan, scatenando l’ira del governo, che ha risposto con accuse di antisemitismo, ma senza fornire risposte sui crimini denunciati.
Insomma, la pressione cresce, e non solo dall’esterno. Il governo israeliano è sempre più isolato a livello internazionale e contestato al suo interno. Però non basta, non può essere una consolazione. Non risponde alla domanda iniziale su Cosa possiamo fare.
E allora vi segnalo qualcosa di più vicino, di più accessibile. Ieri mentre il nostro governo bocciava due mozioni su Gaza, fuori in piazza Montecitorio un gruppo di cittadini/e ha esposto 4 bandiere della Palestina e protestato rumorosamente. E vi annuncio anche che a breve pubblicheremo un articolo con tutte le informazioni e le istruzioni per partecipare alla marcia globale verso Gaza, una gigantesca iniziativa umanitaria che vuole aprire il valico di Rafah e permettere agli aiuti umanitari di entrare.
Poi si possono fare sempre delle donazioni, ad esempio al progetto Soup Kitchen, trovate il link fra le fonti. O ancora, se abitate a Firenze e dintorni, vi segnalo anche una richiesta di aiuto molto specifica, di ospitare le famiglie dei bambini gazawi ricoverati all’ospedale pediatrico Meyer, famiglie che hanno ottenuto il ricongiungimento familiare ma che ancora non hanno una sistemazione stabile. Sempre fra le fonti trovate le indicazioni.
Insomma, il senso di impotenza rimane, la mobilitazione cresce, il tempo stringe. Noi, ecco, qualcosa lo possiamo fare.
Ieri è successa una cosa storica. Per la prima volta in Italia un tribunale ha riconosciuto il legame diretto tra l’esposizione ai PFAS e la morte di una persona. È successo a Vicenza, dove il giudice ha stabilito che Pasqualino Zenere, ex operaio della Miteni, è deceduto a causa dei PFOA e PFOS, due composti che fanno parte della vasta famiglia dei PFAS. Una decisione senza precedenti, che potrebbe aprire la strada ad altri riconoscimenti simili. A darne notizia è GreenPeace con un articolo a firma di Giuseppe Ungherese, Responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia.
I PFAS – ne parliamo ahimé spesso ma sempre meglio ripetere – sono un gruppo di sostanze chimiche molto usate dall’industria per rendere i materiali resistenti all’acqua, ai grassi e allo sporco. Si trovano in tantissimi prodotti di uso quotidiano, come padelle antiaderenti, abiti impermeabili, imballaggi alimentari e cosmetici. Il problema è che sono molto persistenti: non si degradano nell’ambiente e possono accumularsi nel corpo umano, causando danni alla salute come tumori, problemi al fegato, alla tiroide e al sistema ormonale.
Il caso specifico analizzato dal tribunale è appunto quello di Pasqualino Zenere, che ha lavorato tra il 1979 e il 1992 nello stabilimento di Trissino, allora chiamato Rimar. È morto nel 2014 per un tumore alla pelvi renale, e oggi, a distanza di dieci anni, arriva un verdetto che certifica quanto per molti era già evidente: le sostanze con cui lavorava erano potenzialmente letali. Il PFOA è classificato come cancerogeno certo dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro, mentre il PFOS è considerato un probabile cancerogeno. E la loro pericolosità, ormai, è ben nota.
Ciononostante, per come funziona il sistema giudiziario, il fatto che a dirlo sia una sentenza di un tribunale crea un precedente importante. Che fra l’altro potrebbe pesare anche sul maxi-processo in corso, sempre a Vicenza, contro 15 ex dirigenti della Miteni, accusati di disastro ambientale per la contaminazione della falda nelle province di Vicenza, Padova e Verona. Un disastro che coinvolge centinaia di migliaia di persone.
Nel frattempo, qualcosa si è mosso anche sul fronte politico. A marzo, dopo l’indagine “Acque senza veleni” condotta sempre da GreenPeace, il governo ha approvato un decreto che abbassa i limiti di PFAS nelle acque potabili e introduce per la prima volta restrizioni al TFA, una delle sostanze della stessa famiglia più diffuse al mondo. Ma è solo un primo passo.
Conclude Ungherese: “La sentenza di Vicenza rappresenta una svolta storica per la giustizia ambientale in Italia: per la prima volta, un tribunale ha riconosciuto che l’esposizione ai PFAS può essere letale. È una vittoria per la famiglia di Pasqualino Zenere, ma anche un campanello d’allarme per le istituzioni e per l’industria. Non basta abbassare i limiti nelle acque potabili: serve un divieto totale alla produzione e all’uso di PFAS, a tutela della salute pubblica e dell’ambiente. Solo così si potrà impedire che milioni di persone siano esposte a sostanze tossiche la cui pericolosità è ormai accertata.”
L’articolo rimanda poi a una petizione di GreenPeace, che trovate in fondo al pezzo in questione, che a sua volta trovate fra le fonti di questa rassegna.
Rispolvero una vecchia rubrica di INMR. Gli anziani e anziane fra gli ascoltatori, parlo in termini di “da quanto tempo ascolto INMR” non in termini anagrafici, ricorderanno forse la rubrica Iononmirassocial. Nome abbastanza brutto con cui raccoglievo invece degli articoli i post più significativi, quasi sempre da FB perché io sì sono anziano, forse non ancora in termini anagrafici ma di anagrafe dell’animo.
Ecco a questo giro voglio leggervi un post FB di Lorenzo Tecleme, bravissimo giornalista ambientale di formazione FFF che abbiamo anche intervistato in una recente puntata di INMR+. E che parla della curva delle emissioni cinesi. La curva delle emissioni è quel grafico che mostra l’andamento delle emissioni climalternati di un paese nel corso del tempo. Leggo:
Ci sono volte che una cosa fredda come un grafico, se compresa, può farti emozionare. È il caso di questo grafico.
Sono le emissioni climalteranti cinesi, il primo emettitore mondiale, che quest’anno hanno iniziato a calare. Pechino contava di arrivare a questo risultato nel 2030 ma, secondo l’analisi di un gruppo di ricercatori finlandesi, il picco sarebbe già stato superato, e sembrerebbe iniziata la discesa. La riduzione è ancora minima, e non è detto regga in futuro, ma è comunque una prima volta. Era già successo che ci fossero dei cali momentanei, ad esempio dopo il covid, ma sempre provvisori e legati ad una diminuzione del consumo energetico. Che la Cina emetta meno mentre consuma di più è una novità assoluta.
Qui si aprono una serie di discussioni sul modello di governance cinese, sui limiti del disaccoppiamento tra crescita e CO2, su come l’Asia abbia investito prima di altri sulla transizione. E le faremo, queste discussioni. Ma ora portiamoci a casa la buona notizia: mentre gli Stati Uniti smantellano quanto fatto nel passato e l’Europa decide di spostare la propria attenzione sul riarmo, la Cina inizia a decarbonizzarsi con cinque anni di anticipo rispetto ai suoi programmi.
Manca ancora molto per essere al sicuro, ma come dicevamo anche in un altro post: quando succede qualcosa di bello, facciamoci caso.
Quarta puntata di CCC – Cerco Casa e Comunità. Andrea Degl’Innocenti, insieme a Lucio Massardo e Natalia Ardoino di MeWe Abitare Collaborativo, affronta uno dei temi più sottili ma cruciali dell’abitare collaborativo: le relazioni. Vivere insieme significa imparare a condividere, comunicare, prendere decisioni collettive, affrontare conflitti. Ma significa anche riscoprire il valore della connessione umana, della fiducia, della solidarietà. In un’epoca in cui l’individualismo sembra dominare, siamo ancora capaci di vivere davvero insieme? L’esperto di oggi è Elvio Martini, psicologo di comunità e presidente dell’associazione BuonAbitare, che ci aiuta a comprendere cosa succede quando mettiamo le relazioni al centro del nostro abitare – e come possiamo farlo in modo sano e consapevole.
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