19 Feb 2024

Approvato il progetto definitivo del Ponte sullo Stretto. E adesso? – #881

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Dopo decenni di propaganda mediatica e messaggi contrastanti, è stato approvato l’aggiornamento definitivo del progetto del Ponte sullo Stretto. Che siano intenzionati a farlo davvero il ponte, questa volta? Cerchiamo di capirlo. parliamo anche della guerra in Congo, della situazione in Ucraina, con l’avanzata dell’esercito russo, della morte di Navalny in Siberia e infine dei risultati delle elezioni in Pakistan.

Torniamo a parlare di Ponte sullo Stretto, perché ci sono un po’ di novità. Se seguite questo format da un po’ sapete che personalmente sono stato abbastanza scettico sul tema del Ponte. Non sul fatto che il ponte abbia senso o meno, in quel caso Scettico sarebbe un eufemismo, ma sul fatto che il ponte si sarebbe mai fatto, e vi dico di più, sul fatto che a qualcuno interessasse farlo davvero questo ponte. 

Questo perché in molti casi, le grandi opere non sono pensate e progettate per essere fatte davvero, ma per far girare soldi e per far campagna elettorale. Per pagare con fondi pubblici studi di fattibilità, dare appalti a ditte per allestire cantieri, fare prove e progetti, e poi magari non concludere nulla. E nel frattempo però fare propaganda politica, accusare qualcuno di intralciare i lavori e così via.

Ecco, a lungo ho pensato che il Ponte sullo stretto fosse questo genere di opera. Ma devo ammettere che qualche dubbio inizia a venirmi. Soprattutto con quest’ultima novità: leggo dal Post che “Il consiglio di amministrazione della società Stretto di Messina spa ha approvato l’aggiornamento del progetto definitivo del ponte sullo Stretto, una delle opere più complesse e costose della storia italiana e di cui si discute da almeno 50 anni. Nell’ultimo anno il consorzio Eurolink, il gruppo di imprese che aveva vinto la gara d’appalto nel 2005, ha aggiornato il progetto definitivo del 2011 da cui l’attuale governo ha deciso di ripartire per iniziare i lavori dopo anni di attesa e incertezze. Di fatto con il voto di ieri è stato approvato il progetto definitivo del ponte”. 

Il ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, punta a aprire il cantiere entro il 2024, con occhi puntati al 2032 per l’inaugurazione. Come racconta sempre il Post, di Ponte sullo stretto si parla, pensate un po’, dal 1968. Il progetto attuale rislale al 2001, finanziato dal Governo Berlusconi. Poi nel 2005 vinse la gara d’appalto la ditta Impregilo, una delle imprese di costruzione più grandi al mondo, stimando la costruzione in 5-10 anni, e un costo di 3,88 miliardi di euro.

Nel frattempo sono cambiati governi e il progetto del Ponte è stato a lungo accantonato, prima di essere riesumato dall’attuale governo di destra. Nel frattempo, rispetto al progetto iniziale, i costi sono lievitati fino a circa 13,5 miliardi (più un miliardino per le “opere accessorie”). 

Ma non finisce qui. Oltre alla grande questione dei soldi, c’è il delicato tema degli espropri: 250 case, due ristoranti, un chiosco, un residence, una panetteria, una macelleria, un motel, un campeggio e persino due cappelle del cimitero verrebbero rase al suolo. E poi ci sono i danni ambientali. 

Ora, uno potrebbe anche valutare che tutto ciò è un sacrificio necessario se l’opera fosse imprescindibile. Il fatto è che ci sono molte stime e studi che mostrano che il Ponte in fin dei conti non serve a un granché. Accorcia i tempi di percorrenza di pochissimo rispetto alle navi, e il traffico stimato è pressoché irrilevante. 

E infatti, se ci fate caso, una delle principali argomentazioni usate dai vari Salvini e in generale dai fautori del Ponte sullo Stretto è l’opportunità di sviluppo, la capacità di generare lavoro (circa 4.300 posti all’anno per sette anni). E magari, questo lo aggiungo io, di dare qualche commessa all’ex Ilva di Taranto, in attesa di essere ristatalizzata, per risollevarne i bilanci. 

Solo che non siamo più in un periodo storico, se mai è esistito, in cui ha senso fare cose inutili o dannose pur di creare lavoro. È una mentalità stantia, che dobbiamo superare il prima possibile se vogliamo continuare ad abitare questo pianeta a lungo.

C’è un’altra guerra che per qualche istante ha lambito, di striscio, le prime pagine dei giornali. Per poi tornare nell’oblio. È la guerra in Congo, e il motivo per cui ha sfiorato la nostra attenzione è assai particolare: l’esultanza di un calciatore.

Siamo al 67° della partita di Europa League Feyenord-Roma quando l’attaccante della Roma Romelu Lukaku, belga di origine congolese, segna il gol del pareggio, di testa, e fa una strana esultanza: serio in volto, porta alla tempia simulando una pistola e con l’altra si copre la bocca. 

Subito partono le ipotesi: ce l’aveva con i tifosi? Ha un conto aperto con la società per qualche grana contrattuale? Niente di tutto questo. È stato lui stesso a chiarire in un post sui social il senso di quel gesto che poteva sembrare enigmatico: «Free Congo DR – Stop the genocide» ha scritto pubblicando una sua foto dopo il gol, ovvero «Liberate la Repubblica Democratica del Congo. Fermate il genocidio». 

Come racconta Francesco Ognibene su Avvenire, “Romelu ha voluto mettere al servizio della sua gente la notorietà sportiva che ne fa un ambasciatore nel mondo della Repubblica democratica del Congo. La sua gente, in questo caso, non sono i romanisti ma i congolesi che soffrono per una guerra civile endemica consumata a spese di una terra tra le più ricche dell’Africa per materie prime, e proprio per questo tra le più soggette a predazioni, appetiti, contese feroci, conflitti senza fine e senza apparente soluzione”.

Lo stesso gesto di Lukaku, fra l’altro, è stato usato dall’intera nazionale congolese durante l’inno nazionale prima di ogni partita della recente Coppa d’Africa: una pistola alla tempia a evocare la violenza, la mano che copre la bocca per denunciare il silenzio in cui viene lasciato scorrere il sangue. 

Ma quindi che sta succedendo nella RD del Congo? Purtroppo la RD del Congo è uno di quei paesi in cui la guerra è considerata la normalità. In questi giorni, commentando il gesto di Lukaku, padre Alex Zanotelli ha ricordato ad ADNKronos un dato agghiacciante: «In sessant’anni di guerre ci sono stati dodici milioni di morti. Eppure non si parla mai del Congo dove si combatte ogni giorno, al centro le risorse minerarie: dai diamanti all’oro, al cobalto». 

Mi sposto su Repubblica, per scoprire meglio cosa sta succedendo in questi giorni: “Gli ultimi scontri tra l’esercito congolese e il gruppo armato M23 nella provincia orientale del Nord Kivu, dal 7 febbraio a oggi, hanno costretto oltre 135 mila persone ad abbandonare le proprie case e a fuggire dai campi profughi di Zaina, alla periferia di Sake, e di Lushgala, a Goma, entrambi presi di mira dalla guerriglia. I bombardamenti indiscriminati e il conseguente sfollamento della popolazione stanno esercitando un’ulteriore pressione sulle infrastrutture umanitarie, già al limite a causa della portata dei bisogni e della mancanza di finanziamenti. 

La provincia del Nord Kivu oggi ospita 2,5 milioni di sfollati interni. La città di Sake, a una ventina di chilometri da Goma, è considerata “l’ultima barriera” sulla strada verso la capitale della provincia del Nord Kivu ma a oggi è ancora controllata dalle Forze armate della Repubblica Democratica del Congo (FARDC), assicurano le autorità locali. I ribelli dell’M23, invece, occupano una parte dei quartieri situati a sud e stanno combattendo contro le FARDC e i wazalendo, i miliziani ausiliari dell’esercito regolare, per conquistare nuove porzioni di territorio. 

La violenza non solo fa crescere i bisogni, ma impedisce anche l’accesso umanitario nelle zone dove si rifugiano la gran parte delle persone in fuga. L’M23 ha bloccato le due strade principali per Goma, in questo modo la possibilità di raggiungere la capitale attraverso percorsi sicuri è molto limitata e la mancanza di collegamenti ha già provocato un’impennata dei prezzi dei prodotti alimentari. Il territorio del Nord Kivu è contaminato dalle mine antiuomo, che rappresentano una minaccia particolarmente pericolosa per i bambini. 

La maggior parte degli sfollati di Sake non ha alcun accesso al cibo, all’acqua potabile, all’assistenza sanitaria e ad altri bisogni primari. Insomma, la situazione è drammatica. Tuttavia leggendo gli articoli di questi giorni, e ne ho letti diversi, non sono riuscito a capire esattamente i motivi di questa guerra. Si parla di gruppi ribelli, ma a cosa si ribellano? E cosa c’entrano le risorse?

Quindi ho fatto un po’ di ricerche. Dietro a queste violenze che si sono riaccese nelle ultime settimane, ma che non sono mai state del tutto sopito, ci sono una serie di equilibri delicati e di strascichi delle due guerre del Congo – due conflitti molto sanguinosi, tenutisi negli anni Novanta, che hanno coinvolto numerosi paesi africani, e soprattutto Congo e Ruanda, e gruppi ribelli, spinti in parte dal desiderio di controllare le ricche risorse minerarie del paese. La Seconda guerra del Congo formalmente si è conclusa nel 2003 ma appunto, ancora vive in qualche forma.

Oggi, queste truppe M23, i ribelli che controllano alcune zone del paese e che si stanno scontrando con l’esercito ufficiale, sarebbero appoggiate dal governo del Ruanda, all’interno di una sorta di guerra fredda regionale. E dietro a questi equilibri, ancora una volta, ci sono le materie prime preziose di cui il paese è ricchissimo, come diamanti, oro, rame, cobalto e coltan (essenziale per la produzione di dispositivi elettronici come cellulari e computer). 

Il controllo delle risorse minerarie non solo finanzia direttamente i gruppi armati attraverso il commercio illegale di minerali, ma negli anni ha anche attratto l’intervento di potenze straniere e aziende multinazionali, spesso a scapito delle comunità locali e dell’ambiente. E questa dinamica ha contribuito a perpetuare il ciclo di violenza e sfruttamento.

Tant’è che attualmente c’è molto risentimento verso i paesi occidentali, in RD Congo. Sabato c’è stata una protesta vicino al quartiere diplomatico di Kinshasa, la capitale, con i manifestanti che sono scesi in piazza bruciando bandiere degli Stati Uniti, del Belgio (di cui è ex colonia) e della Francia (molto presente con le sue aziende, al pari degli Usa), colpevoli secondo loro di sostenere Paul Kagame, presidente del Ruanda, e quindi indirettamente il gruppo ribelle M-23.

Ecco. Questa più o meno è la situazione. Per ricostruirla mi sono letto diversi articoli di diversi periodi, anche di anni fa. Vi posso dire che in nessun articolo recente la situazione era spiegata in maniera comprensibile. 

Quindi tornando a Lukaku e all’esultanza. È interessante che un calciatore abbia e sfrutti la possibilità modificare l’agenda setting, portando luce laddove i media in genere non ne mettono, sfruttando la popolarità di un gioco seguitissimo come il calcio. Al tempo stesso, i media dovrebbero fare la loro parte spiegando meglio le cose, senza limitarsi a articoli che mi sembrano quasi tutti un po’ scritti per dovere, ma che non spiegano realmente granché. 

Piccolo break, per comunicare una novità importante per chi segue INMR. Se siete iscritti salla NL di INMR, da oggi avete la possibilità di decidere quali NL ricevere. Potete scegliere se continuare a ricevere tutte le NL quotidiane, quelle relative a ogni puntata, più quelle speciali, ad esempio quelle con il podcast è un casino o con le soluzioni di Trova il Bias, oppure ricevere solo quelle speciali, quindi considerate circa 2-3 al mese. 

Così come se vi iscrivete adesso, potete scegliere fra queste due opzioni. Riceverete nel pomeriggio una NL esattamente su questo tema.

Altre notizie che hanno tenuto banco nel weekend sui giornali arrivano dalla Russia e dall’Ucraina. Innanzitutto, è morto in carcere Aleksei Navalny, blogger e principale oppositore politico di Putin, morto ieri durante l’ora d’aria nel carcere di Kharp, nella Siberia del Nord. Le notizie ufficiali che arrivano dalla Russia parlano di Sindrome della morte improvvisa. Una tesi che ovviamente non suona particolarmente convincente.   

E difatti, come racconta Fabrizio Dragosei sul Corriere, “i suoi collaboratori, i familiari e buona parte dell’opinione pubblica internazionale hanno pochi dubbi. Qualcuno pensa addirittura che sia stato assassinato mentre la maggior parte ritiene che comunque Navalny sia deceduto per tutto quello che gli è stato fatto. Prima l’avvelenamento col Novichok, una sostanza nervina; poi il carcere con privazioni che a noi appaiono inimmaginabili. 

Condannato a 19 anni (ma sul suo capo pendevano altre accuse), era finito dentro nel gennaio del 2021. In totale aveva passato ben 300 giorni in cella d’isolamento per quelle che i suoi denunciano come mancanze ridicole o accuse pretestuose. «Il detenuto non aveva allacciato l’ultimo bottone della giubba», 15 giorni in isolamento. «Navalny ha insultato il tenente Nejmovich chiamandolo così anziché usare il nome e il patronimico», 15 giorni. «Il prigioniero ha pulito male il cortile», 15 giorni. In queste celle speciali il letto viene alzato e bloccato contro il muro al mattino e per tutto il giorno i reclusi non possono stare né sdraiati né seduti. Il cibo fornito era «pessimo e scarso», ha raccontato la sua portavoce Kira Yarmysh.

Da un anno e mezzo non gli era stato consentito di incontrare o parlare per telefono con la moglie e i due figli. I tre avvocati, che incontrava con una certa regolarità, sono stati a loro volta accusati di estremismo. Due sono in galera e uno è fuggito all’estero.

Insomma, una vita resa infernale che a un certo punto si è interrotta. Lasciando un vuoto dietro di sé dato che al momento, come racconta Eugenio Cau sul Post, “Tutti i leader politici che potevano affrontare Putin sono morti, all’estero o in prigione: e quello che resta dei movimenti contro il regime riesce appena a sopravvivere”.

Intanto l’esercito russo ha preso la cittadina di Avdijivka (Avdifka), un piccolo centro ma diventato per una serie di ragioni strategico, un po’ come Bakmut. A differenza di Bakhmut, però, dove si è consumata una delle battaglie più cruente e iconiche della guerra in Ucraina, nel caso di Avdijivka Zelensky ha ha chiesto alla leadership militare di salvare la vita dei militari. Considerando la cittadina persa ormai da settimane. 

Già una decina di giorni fa scriveva Mirko Mussetti nel nuovo numero di Limes, “Stiamo perdendo la guerra”: “La carenza di soldati preparati e motivati sta mettendo a dura prova le Forze armate di Kiev lungo tutta la linea di contatto. In particolare sul proprio fianco sinistro, nel Donbas. Qui i russi stanno martellando più che in altre zone, poiché intenzionati a raggiungere posizioni idrografiche più sicure e in generale ad allontanare lo schieramento ucraino dai capoluoghi Luhans’k e Donec’k”.

I combattimenti sono particolarmente intensi attorno alla cittadina di Avdijivka, ubicata nel distretto di Pokrovs’k e a pochi chilometri da Donec’k. La battaglia è particolarmente cruciale poiché il centro urbano costituisce una roccaforte ucraina, mai caduta nelle mani dei miliziani separatisti filorussi o dell’esercito regolare di Mosca dal 2014 a oggi. Ora il Cremlino è intenzionato a catturarla poiché solo così potrà creare linee difensive meglio strutturate nell’area a ridosso del capoluogo.

Kiev sta erigendo nuove fortificazioni a 16 chilometri da Avdijivka. Segno che le Forze armate si apprestano ad abbandonare la città accerchiata dai russi su tre lati (Nord, Est, Sud) appena risulterà indifendibile. In effetti, la situazione è molto simile a quanto già visto a Bakhmut, dove sin qui si è consumata la battaglia più sanguinosa e forse iconica dell’intero conflitto…”

In generale l’esercito ucraino sta patendo molto l’assenza di munizioni e armi inviate dagli Usa, dopo aver basato buona parte della sua strategia proprio sulla disponibilità quasi illimitata di rifornimenti proveniente da oltreoceano. Ma i pacchetti di aiuti sono bloccati in interminabili discussioni, sempre più accese, fra democratici e repubblicani. Dopo settimane la Camera ha approvato un pacchetto da oltre 60 miliardi di dollari, ma non è detto che lo stesso sostegno sarà replicato in Senato, dove i repubblicani  sono più radicali e vorrebbero usare quei soldi per aumentare la difesa ai confini contro l’immigraizone. 

Per concludere sull’argomento, riporto qui che in una recente intervista Putin ha detto di preferire Biden a Trump come presidente americano, in quanto un politico vecchio, mentre Trump sarebbe troppo imprevedibile. Lì per lì mi sono detto, ma che strano, finché un amico e collega non mi ha fatto riflettere sulla cosa più ovvia. Un endorsement a Biden, è il miglior regalo che potesse fare a Trump. 

Bene. Spostiamoci in Pakistan, dove giovedì 8 febbraio si sono tenute le elezioni. Il Pakistan è un paese particolare: è il secondo Paese musulmano del mondo, in cui vivono più di 240 milioni di persone (il primo è l’Indonesia). È una cosiddetta democrazia islamica, ma nella sua storia è stato governato da quattro dittature militari.

Da almeno due anni in Pakistan regna l’instabilità politica: l’ultimo premier eletto democraticamente, Imran Khan, ex stelLa del cricket, è stato sfiduciato nel 2022 con una manovra di palazzo e l’anno successivo è stato arrestato. Eppure è ancora considerato una specie di eroe nazionale, ultra populista, ed è ancora estremamente popolare nel Paese, ma il suo partito, il Pakistan Tehreek-e-Insaf (PTI) non si è potuto presentare formalmente a queste ultime elezioni e la commissione elettorale gli ha proibito di usare il proprio simbolo. Eppure, ha vinto.

I candidati sostenuti dal PTI si sono presentati come indipendenti, con simboli diversi da quello ufficiale del partito, che appunto era vietato. Non hanno ottenuto la maggioranza assoluta, ma comunque con 101 seggi in parlamento sono il partito più rappresentato e adesso si apprestano a provare a formare un governo, con l’appoggio di un partito minore. 

La cosa sorprendente è che questo partito è stato completamente boicottato in campagna elettorale. Aveva molti leader in carcere e nei mesi prima del voto il governo aveva impedito ad parecchi politici del PTI di fare campagna elettorale, aveva censurato la copertura giornalistica del partito e bloccato più volte l’accesso a internet per impedire la visione in streaming dei comizi dei suoi politici.

Pare che la chiave della vittoria sia un utilizzo massiccio dei Social media e dell’IA. Pensate che all’annuncio della vittoria Imran Khan ha diffuso in rete il suo discorso della vittoria dal carcere, grazie all’uso dell’intelligenza artificiale. 

L’utilizzo dei social media da parte del partito non è una novità: erano stati usati per le elezioni del 2018, ma per la campagna elettorale di quest’anno – grazie all’intelligenza artificiale – il PTI ha ricreato un comizio che è stato fatto circolare tra i sostenitori e sui vari social, e che in poco tempo ha raggiunto quasi 5 milioni di visualizzazioni. E questo, in un paese in cui il 44% degli elettori ha tra i 18 e i 35 anni, ha fatto la differenza. 

E forse è uno squarcio aperto sul futuro – che è già un po’ presente – della politica mondiale, e dell’impatto che l’IA può avere su di essa.

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