26 Giu 2024

Assange, i retroscena della liberazione e i pericoli per l’informazione – #956

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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Dopo l’euforia per la liberazione, oggi andiamo più a fondo alla notizia, per capire i retroscena sulla liberazione di Assange, le trattative, ma anche cosa comporta la sua ammissione di colpevolezza a livello di libertà di stampa. Parliamo anche delle ritorsioni russe dopo l’attacco ucraino a Sebastopoli, con convocazione dell’ambasciatore Usa a Mosca e blocco di 81 giornali internazionali, delle violente rivolte in Kenya contro l’aumento delle tasse (e non solo) e dei “magheggi” della finanza green, che a volte tanto verde non è. 

Allora, continuiamo a parlarne perché è a tutti gli effetti la notizia della settimana, probabilmente del mese, sarebbe stata la notizia dell’anno se fossimo in un periodo storico più tranquillo. Quella di ieri è stata una giornata storica per tutto il mondo dell’informazione, e in definitiva per tutto il mondo. Perlomeno per le società di Sapiens del mondo, non credo che alle antilopi o ai suricati sia fregato granché. 

Ieri è stato il momento dell’euforia, della celebrazione, del dare la notizia e basta. oggi è il momento delle domande. Che significa che Assange ha patteggiato? Che implicazioni ha questo fatto per il tema della libertà di stampa? Cosa succede adesso? E come sta Julian? L’accordo prevede che possa continuare a fare il proprio lavoro oppure no?

Va bene, riavvogliamo il nastro e ricominciamo. Come saprete, lunedì mattina, all’insaputa di tutti, Julian Assange è stato liberato su cauzione dalla prigione londinese di Belmarsh ed è salito su un aereo all’aeroporto di Stansted a nord di Londra in direzione del suo Paese natio, l’Australia. In realtà, dettaglio che ieri mi era sfuggito, e che mi ha portato a dire una cosa inesatta, non è volato direttamente in Australia.

Ma ha dovuto fare una tappa di due giorni (ieri e oggi, mercoledì) nelle Isole Marianne Settentrionali, per poi ripartire stasera alla volta dell’Australia. Le Isole Marianne Settentrionali sono delle isolette nel Pacifico occidentale, e dal punto di vista politico sono un commonwealth in unione politica con gli Stati Uniti d’America. Leggo su L’Indipendente, articolo a firma di Patrick Boyle, che “Lì dovrà presentarsi davanti ad una corte statunitense, dichiararsi colpevole del reato di uso improprio di documenti ufficiali, ricevere una sentenza di cinque anni, ovvero quelli già trascorsi a Belmarsh, ed uscire dal tribunale come uomo libero”. 

Questo è possibile perché, appunto, le Isole Marianne Settentrionali sono, dal 1986, un “territorio non incorporato” degli USA, e sono state scelte come luogo in cui tenere questa udienza perché la loro corte, che si trova nella capitale Saipan, è la giurisdizione statunitense più lontana dalla terraferma USA e la più vicina all’Australia. 

Ma cosa succederà in quella stanza? Secondo Sarah Galashan, esperta legale dell’emittente canadese CBC News, riportata sempre su L’Indipendente, il patteggiamento consisterà nell’accettazione di un documento già concordato con gli avvocati di Julian e depositato in tribunale insieme a una lettera rivolta al giudice di Saipan. Il documento descrive in dettaglio il reato “commesso” da Assange insieme al suo informatore (whistleblower) Chelsea Manning. 

Aaccettandolo Julian dovrà confessare di fatto di esserne colpevole in cambio di una sentenza di 62 mesi, ma con il riconoscimento del tempo da lui già passato in carcere. Il reato contestato è la diffusione di informazioni riservate, e Assange, suppongo, dovrà confessare di aver svolto un ruolo attivo, perché buona parte dell’impianto accusatorio americano si basava sul fatto che Assange non si fosse limitato a pubblicare informazioni che gli erano arrivate ma che avesse in qualche modo spinto Chelsea Manning a mandargliele. 

Questo passaggio però nasconde un fatto da non sottovalutare, potenzialmente piuttosto insidioso. Leggo ancora su L’Indipendente che “riconoscendosi colpevole di una serie di reati, anche se minori, Assange confermerà la tesi del Dipartimento di Giustizia statunitense secondo la quale è reato divulgare informazioni segrete, per quanto ciò sia nell’interesse generale a difesa del diritto dei cittadini di sapere gli eventuali misfatti dei loro governanti che questi cercano di celare ponendoli sotto Segreto di Stato. Si tratta di un precedente estremamente pericoloso per la sopravvivenza del giornalismo investigativo ed è in palese contrasto con una sentenza del 1971 della Corte Suprema statunitense, che dichiarava perfettamente legale rivelare materiale segretato purché fatto, appunto, nell’interesse generale”.

L’autore del pezzo poi si spinge in una ricostruzione dei retroscena non provata, ma interessante. Se ricordate due anni fa Assange scrisse dal carcere una strana lettera a Re Carlo, in occasione della sua incoronazione. E questo fatto aveva fatto ipotizzare a Boyle una trattativa segreta fra Assange e le autorità britanniche e Usa, trattativa all’interno della quale quella lettera poteva essere una sorta di messaggio in codice per dire che non avrebbe scambiato la propria libertà per una promessa di silenzio una volta liberato e un impegno a non riattivare il suo sito WikiLeaks. 

Evidentemente quelle trattative c’erano e sono andate avanti comunque. Oggi, dopo due anni di negoziati, sembra che Julian sia arrivato a un compromesso in grado di soddisfare sia i suoi principi, sia le esigenze della giustizia oltre Atlantico. I dettagli dell’accordo non sono noti ma secondo quanto trapela, almeno fino ad ora, nell’accordo non vi sarebbe nessun impegno da parte di Assange in cui assicura di non ricominciare a fare attività giornalistica. Questo è un fatto importante.

Tuttavia le preoccupazioni a cui accennavo sopra rimangono. The Intercept, importante giornale di giornalismo investigativo, ha scritto ieri che «i difensori della libertà di stampa hanno accolto con favore la fine della saga di Assange, ma sono preoccupati per i risvolti». Il giornale cita poi Jameel Jaffer, direttore esecutivo del Knight First Amendment Institute della Columbia University secondo cui: «Questo accordo prevede che Assange accetti la pena di cinque anni di carcere per attività che i giornalisti svolgono quotidianamente» e questo potrebbe risultare un pericoloso precedente.

Nel corso della giornata di ieri comunque sono emersi ulteriori dettagli che sembrano stemperare un po’ queste preoccupazioni. Ad esempio l’accordo prevede che Julian si dichiari colpevole di uno solo dei 18 capi d’imputazione sollevati in America – pretesa minima dal Dipartimento di giustizia di Washington. Anche se non è chiaro quale, dei 18. Sappiamo solo che è una delle accuse ai sensi dell’Espionage Act, una severissima legge sul controspionaggio datata 1917 e mai evocata in oltre 100 anni di storia, se non per questa vicenda.

La Federazione Internazionale dei Giornalisti ha descritto il rilascio di Julian Assange dalla prigione come una “vittoria significativa per la libertà di stampa.” Leggo sempre sul Guardian: “L’abbandono di 17 delle 18 accuse che ha affrontato evita la criminalizzazione delle normali pratiche giornalistiche di incoraggiare le fonti a condividere in modo confidenziale prove di illeciti e criminalità,”.

Nel pomeriggio di ieri, poi, la moglie di Stella Assange ha dichiarato a Reuters che suo marito chiederà, più avanti, la grazia alla presidenza degli Stati Uniti per cancellare gli effetti anche di questa unica ammissione di colpevolezza.

Stella Assange ha anche rilasciato alcune dichiarazioni interessanti. Ha ammesso che comunque  “Il fatto che ci sia una dichiarazione di colpevolezza, ai sensi della legge sullo spionaggio in relazione all’ottenimento e alla divulgazione di informazioni sulla Difesa Nazionale è ovviamente una preoccupazione molto seria per i giornalisti e i giornalisti di sicurezza nazionale in generale”, ha detto a Reuters.

E ha fatto delle confessioni più personali. C’è un passaggio in particolare che mostra l’umanità di questa donna e anche la drammaticità di quello che anche lei deve aver passato: “Mi sento euforica. Ma mi sento anche preoccupata, perché sono così abituata al fatto che le cose vadano storte. Resterò preoccupata finché non sarà tutto completamente concluso, mi preoccupo, anche se sembra che ci siamo arrivati, alla conclusione. Ci crederò davvero quando lo avrò davanti a me e potrò prenderlo e abbracciarlo e allora sarà reale, capisci?”. ha detto al giornalista di Reuters.

Stella ha anche detto che lanceranno una campagna di raccolta fondi non appena Assange arriverà in Australia perché, visto che Assange volava non poteva volare su un volo di linea è stato noleggiato un volo per portarlo dal Regno Unito all’Australia via Thailandia e Isole Marianne Settentrionali costato 500.000 dollari e la politica del governo australiano è di chiedere i rimborsi su spese come queste. Che uno dice, vabbé, potresti anche fare un’eccezione, ma tant’è. Comunque, l’importante per adesso è che Assange sia libero, e possa – stasera – riabbracciare la moglie Stella e i figli Gabriel e Max, di 6 e 4 anni, che non hanno mai visto il padre in libertà in tutta la loro vita. 

Dopo l’attacco ucraino su Sebastopoli, che ha causato la morte di 5 civili di cui 3 bambini, il Cremlino ha attaccato duramente i paesi occidentali, i paesi NATO. Il motivo è semplice. A lanciare fisicamente i missili, quei missili di cui uno è stato deviato dalla difesa russa finendo (almeno alcuni suoi frammenti) su una spiaggia affollata di Sebastopoli e uccidendo alcune persone, sono stati il governo e l’esercito ucraino, a fornirli sono stati i paesi occidentali.

Si tratta dei famosi missili da crociera Atacms, forniti dagli Usa, ma non solo, anche programmati e guidati sulla base delle informazioni di intelligence satellitari americane. Motivo per cui dal Cremlino sono subito arrivate prima le minacce di ritorsioni, poi le ritorsioni. 

Lunedì è stato convocato l’ambasciatrice americano a Mosca Lynn Tracy, a cui è stato spiegato come ormai il governo russo consideri gli Stati Uniti parte effettiva del conflitto, in quanto forniscono armi e competenze tecniche agli ucraini. Pertanto, “hanno la stessa responsabilità del regime di Kiev per l’atrocità” di Sebastopoli.

Poi, ieri, il Cremlino ha bloccato l’accesso sul suo territorio l’accesso ai siti di 81 media europei, tra cui diversi italiani, in particolare Repubblica, La Stampa, Rai e La7, in risposta ad analoghe misure adottate dalla Ue nei confronti dei russi Ria Novosti, Izvestia e Rossiyskaya Gazeta. Il Paese più colpito, con nove media, è la Francia. Insomma, la tesione fra Russia e blocco NATO continua a crescere. 

Altra notizia di ieri legate allo scenario russo-ucraino è che la Corte penale internazionale ha emesso mandati d’arresto per l’ex ministro della Difesa russo Serghei Shoigu e per il capo di stato maggiore Valery Gerasimov, mentre la Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo ha condannato la Russia per la violazione dei dei diritti umani in Crimea a cominciare dal 27 febbraio del 2014. 

Sembrerebbe che i capi negoziatori che stanno lavorando all’ossatura della nuova Ue abbiano trovato un accordo. I giornali parlano di un Von Der Leyen bis praticamente ufficiale, con l’ex premier portoghese Antonio Costa come presidente del Consiglio europeo e la premier estone Kaja Kallas sarà l’Alta Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari esteri.

I negoziatori sono i capi di stato e di governo individuati dai gruppi politici presenti al parlamento Ue: per il Ppe i premier polacco e greco, Donald Tusk e Kyriakos Mītsotakīs; per i socialisti il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il premier spagnolo Pedro Sánchez, per i liberali il presidente francese Emmanuel Macron e il premier olandese uscente Mark Rutte, che ha da poco ottenuto la nomina di segretario generale della Nato.

L’annuncio è stato fatto trapelare ai giornali prima dell’inizio del Consiglio Europeo, che si terrà domani e venerdì, dove verranno prese le decisioni ufficiali, e questo potrebbe essere un segnale di chiusura verso altre forze politiche che non rientrano nell’asse Popolari-socialisti-liberali. 

Come scrive Francesca Debenedetti su Domani, “Non era necessario e quindi è un chiaro messaggio politico. I capi negoziatori hanno deciso di segnalare la chiusura di un accordo sulle nomine europee già prima che inizi il Consiglio europeo di giovedì e venerdì, che resta comunque la sede per le decisioni ufficiali. Ma popolari, socialisti e liberali arriveranno all’appuntamento con un pacchetto già chiuso. La notizia è filtrata dal Lussemburgo inizialmente tramite l’agenzia di stampa tedesca Dpa”.

Il pacchetto è in realtà lo stesso già discusso il 17 giugno nel summit informale: Ursula von der Leyen alla guida della Commissione europea, António Costa per la presidenza del Consiglio europeo, Kaja Kallas come alto rappresentante Ue. In ordine di peso dei gruppi, quindi: una popolare, un socialista, una liberale. 

Sembrano quindi chiudersi gli spazi per ruoli di rilievo di rappresentanti italiani e per un ruolo del gruppo di Meloni nel governo dell’Europa. Ma vediamo cosa succede fra giovedì e venerdì.

Ci sarebbero un sacco di altre notizie importanti oggi. Ma dobbiamo andare un po’ di corsa. Partiamo dal Kenya, dove sta succedendo il finimondo dopo che ieri è stata approvata una legge che aumenta le tasse. 

In realtà, come racconta un articolo su L’Indipendente, le proteste andavano avanti già da oltre una settimana e si rivolgevano in particolare alla cosiddetta Finance Bill, un disegno di legge sulle finanze pubbliche che prevede l’introduzione di nuove tasse e l’aumento della spesa pubblica nel Paese per una cifra complessiva di 2,7 miliardi di dollari, fortemente caldeggiate dal Fondo Monetario Internazionale al fine di ridurre il deficit del bilancio.

Le proteste, ampiamente organizzate e condotte attraverso i social da giovani per la maggior parte sotto i 30 anni, sono identificate dall’hashtag #OccupyParliament (“occupare il parlamento”) e #RejectFinanceBill2024 e mirano ad esercitare una pressione sull’esecutivo affinchè il nuovo disegno di legge sia abbandonato. Lunedì, dopo una settimana di scontri e disordini che ha preso del tutto alla sprovvista l’esecutivo, il presidente del Kenya, William Ruto, si era detto disposto a dialogare con la popolazione. 

Ma poi nella giornata di ieri è arrivata la notizia dell’approvazione della legge e a quel punto – riporta Repubblica – migliaia di manifestanti hanno preso d’assalto gli edifici del Parlamento a Nairobi. Secondo quanto trasmesso dalle televisioni nazionali e riportato dal sito Kenyans, fuori dal Parlamento si susseguirebbero spari e ci sarebbero morti tra i dimostranti. Il numero non è ancora chiaro, i media parlano di almeno 3 persone uccise, ma potrebbero essere molte di più.

Sullo sfondo di queste proteste, come riporta invece l’articolo de L’Indipendente, sembrerebbe esserci anche una crescente insofferenza verso le ingerenze del governo americano, di cui quello kenyota è fedele alleato. È possibile, insomma, che anche il Kenya si stia allineando al fronte dei paesi africani che si smarcano dall’occidente, forse anche sotto la spinta della Russia. 

Chiudo con una notizia che meriterebbe ben altra trattazione, ma visto il poco tempo mi limito a segnalarvi. Poi magari approfondiamo nei prossimi giorni. 

Sempre Domani pubblica un’inchiesta realizzata da un gruppo di giornali e giornalisti europei che smaschera i giochi non proprio verdi di parte della finanza green. In pratica secondo quanto emerge dall’inchiesta i fondi green, quelli venduti ai risparmiatori dell’Ue come «sostenibili», hanno investito 87,4 miliardi di dollari nelle 200 aziende più inquinanti al mondo. E a beneficiarne è stato soprattutto il settore oil&gas, il più impattante sulla crisi climatica. Eni, ad esempio, ha raccolto così 1,8 miliardi. 

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