26 Set 2024

La crescita economica non sconfigge la povertà (e distrugge il Pianeta), parola dell’Onu – #990

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
Salva nei preferiti

Seguici su:

Un nuovo rapporto delle Nazioni Unite dà un’altra spallata al mito della crescita infinita del Pil su cui si basano le economie moderne: la crescita – dice il rapporto – oltre a fare un sacco di danni ambientali non serve a sconfiggere la povertà. Parliamone. Parliamo anche dell’Ue che abbassa il livello di protezione del lupo, del primo cementificio a impatto zero d’Italia, che però a impatto zero non è, e del Re della Thailandia che promulga la legge con cui introduce i matrimoni gay nel paese.

È uscito un rapporto super interessante delle Nazioni Unite che dà un’ulteriore spallata al mito della crescita economica infinita su cui si basano le economie contemporanee di tutto il mondo. Se ricordate già alcuni paper dell’Agenzia europea dell’ambiente, l’organo di ricerca che dovrebbe fornire le informazioni e le analisi su cui l’Unione basa le sue politiche ambientali, mettevano fortemente in dubbio il concetto che fosse possibile costruire un modello sostenibile all’interno del paradigma della crescita economica e suggeriva di rivolgersi ad altri modelli, come la decrescita, la post-crescita o l’economia della ciambella.

In quel caso il focus era appunto quello ambientale e della sostenibilità. L’Onu invece dà una spallata a un’altra convinzione mai provata che continua ad alimentare il mito della crescita. Ovvero che solo la crescita economica sia in grado di sconfiggere la povertà. 

A quanto pare non è così. Sono su Economia Circolare, l’articolo è a firma del giornalista Tiziano Rugi che scrive: “Pensare di risolvere il dramma della povertà globale solo con la crescita economica è puramente un’illusione. A sostenerlo, senza mezzi termini, è il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, in un rapporto firmato da Olivier De Schutter, relatore speciale sulla povertà estrema e i diritti umani per l’Onu: l’ideologia economica che vede nella crescita del Pil (il Prodotto interno lordo) lo strumento per portare prosperità in tutto il mondo è “un mito pericoloso”, che guida la scelta di politici e di economisti, ma si scontra con le evidenze della realtà”.

In pratica, la teoria economica della crescita vuole che se tutta l’economia cresce, trainata ovviamente dai grandi capitali, da chi ha molti soldi per farla semplice, delle briciole di quella ricchezza goccioleranno verso il basso (trickle down) verso chi ha poco o niente migliorando anche la loro condizione. Invece quello che osserviamo, afferma lo studio, è che la ricchezza resta concentrata nelle mani di pochi privilegiati, che rappresentano meno dell’1% della popolazione. E non gocciola da nessuna parte. 

Oltre alle diseguaglianze, nel rapporto si descrivono anche i danni ambientali causati dalle attuali politiche economiche e si esortano i governi e le organizzazioni internazionali – udite udite – a smettere di usare il Pil come misura del progresso e a concentrarsi, invece, sulla difesa dei diritti umani e sul benessere sociale.

Insomma, secondo De Schutter, la strategia tradizionale di promuovere la crescita economica per combattere la povertà ha creato un pianeta sull’orlo del collasso climatico, con un’élite che accumula ricchezze mentre milioni di persone vivono in estrema povertà, con un costante aumento del consumo di energia e di risorse a livelli non più sostenibili. 

Super interessante anche il fatto che nel rapporto si citino direttamente i planetary boundaries, ovvero i 9 indicatori che delimitano lo spazio di azione sicuro dei Sapiens sul pianeta. Uno spazio che abbiamo già oltrepassato in parecchi punti. 

E infatti non si parla solo di clima, ma anche di estrazione eccessiva di risorse, di economia estrattivista che saccheggia le risorse fino al loro esaurimento o alla completa distruzione degli habitat. Scrive De Schuster che sebbene il fatto che molte persone oggi “sembrano credere che l’attività economica possa espandersi all’infinito, come se la Terra dovesse fornire risorse illimitate per l’eternità e assorbire i rifiuti derivanti dalla nostra ambizione apparentemente senza limite” è la causa principale della crisi climatica e ambientale. E non solo mette a rischio la sopravvivenza della Terra, ma genera disuguaglianze.

Leggo ancora qualche passaggio del rapporto citato nell’articolo: “Scelte politiche come la liberalizzazione del commercio il lavoro flessibile o la creazione di un ‘clima favorevole agli investimenti delle imprese’ (parole in codice per ridurre le tasse e gli oneri normativi alle imprese più grandi) sono state prese in nome dell’aumento del Pil, nonostante tali misure causino esclusione sociale e mettano a dura prova la resilienza delle comunità”.

E ancora il rapporto evidenzia come la crescita economica nel Sud globale non sia riuscita a far uscire le persone dalla povertà perché spesso la “ricchezza” in questi Paesi dipende dallo sfruttamento della manodopera e dall’estrazione di risorse per favorire il Nord globale e pagare il debito estero. De Schutter sostiene che anche nei Paesi a basso reddito, dove la crescita economica resta necessaria, lo sviluppo dovrebbe concentrarsi sul benessere sociale e ambientale piuttosto che sull’aumento del Pil. Mentre “le economie dei Paesi ricchi sono cresciute ben oltre il necessario per consentire alle persone di prosperare; sono diventate obese”. 

L’articolo è molto lungo e approfondito, ne consiglio vivamente la lettura. Io per ragioni di tempo balzo alle conclusioni in cui “a conclusione del suo studio, De Schutter ha chiesto un cambiamento radicale nella lotta alla povertà, promuovendo un’economia basata sui diritti umani che dia priorità ai servizi pubblici e alla protezione sociale, rifiutando il Pil come unico indicatore di progresso”. 

“Servono misure concrete che vanno dalla ristrutturazione e cancellazione del debito nelle nazioni povere al finanziamento dei servizi pubblici e sociali attraverso tasse progressive sulle eredità, sul patrimonio e sul carbonio, limitando la ricchezza delle industrie che distruggono l’ambiente, per finanziare, invece, misure a sostegno del lavoro domestico e di cura non retribuito o l’istituzione di un salario minimo”.

Ora: se masticate un po’ di ecologia, decrescita, economia ecc, magari queste robe non vi suoneranno nuove. E non lo sono in realtà. Però capite bene che il fatto che siano presenti in un rapporto ufficiale delle Nazioni Unite, l’organismo fra l’altro preposto alla lotta globale contro la povertà, è tutt’altra storia. L’organismo che gli stati del mondo hanno creato per proteggere la pace, i diritti e far uscire le persone dalla povertà dice che la crescita non serve praticamente a nessuna di queste cose. A questo punto mi aspetto che gli obiettivi di sviluppo sostenibile diventino gli obiettivi di decrescita sostenibile. 

Non lo so, non lo so. Sono segnali importanti e interessanti. Certo fra dire una cosa del genere e realizzarla ci passa un sacco di roba complicatissima, perché nel frattempo attorno alla crescita abbiamo creato un sistema ipercomplesso in cui ogni elemento dipende da questo meccanismo centrale. Però, se ci ricordiamo che l’economia sono solo delle regole del tutto arbitrarie che ci siamo inventati, magari possiamo anche provare a cambiarle e vedere che succede.

Ieri è successa una roba piuttosto preoccupante in ambito europeo e che riguarda lo status di protezione del lupo. Racconta il WWF che nella riunione di ieri dei Rappresentanti Permanenti a Bruxelles è stata approvata la proposta della Commissione (della vecchia commissione in questo caso) che vuole declassare lo status di protezione del lupo da “rigorosamente protetto” a semplicemente “protetto”.

In pratica esiste in Europa una Convenzione sulla Conservazione della Vita Selvatica e degli Habitat naturali (la c.d. Convenzione di Berna), che setta diversi livelli di protezione per alcune specie selvatiche. 

Parentesi, che vuol dire? 

In pratica per una Specie rigorosamente protetta vige:

  • il Divieto totale di uccidere, catturare o disturbare gli individui di questa specie.
  • La protezione del suo habitat naturale e dei luoghi di riproduzione o di svernamento.
  • È vietata la distruzione dei nidi o delle tane, delle uova o delle aree di rifugio.
  • Non sono ammessi prelievi (caccia o cattura) se non in casi eccezionali, e solo previa autorizzazione e dimostrazione di una necessità scientifica o di gestione delle popolazioni.

Per una.Specie protetta invece:

  • Il prelievo controllato è consentito: quindi le specie possono essere catturate o uccise, ma solo in base a norme e quote fissate dai governi nazionali.
  • Sono previste restrizioni sul commercio o sulla detenzione di individui delle specie, ma con maggiore flessibilità rispetto alle specie rigorosamente protette.

Quindi capite che è un cambiamento grosso. Non è ancora approvato in maniera definitiva – dopo vediamo quali passagi mancano – ma è una roba grossa. Fin qui la proposta non era mai passata perché il Governo tedesco si era sempre astenuto, invece questa volta ha deciso di votare a favore. Il Governo italiano ovviamente ha votato a favore.

Vi leggo come commenta l’articolo di WWF: “Una decisione gravissima che apre pericolosamente la porta agli abbattimenti del lupo in Europa e ignora l’appello di oltre 300 organizzazioni della società civile e di centinaia di migliaia di persone che hanno esortato i governi a seguire le raccomandazioni della scienza e a intensificare gli sforzi per favorire la coesistenza con i grandi carnivori attraverso misure preventive”.

Questa contro i lupi è anche, se ricordate, una battaglia personale della Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, in cui si intrecciano – incredibilmente – rancori privati e forse interessi politici. Perché anni fa un lupo uccise un pony della sua famiglia. E probabilmente anche per compiacere una parte del settore agricolo che vede nei lupi una minaccia per il bestiame. 

Si tratta di una marcia indietro abbastanza importante, che sempre secondo il WWF potrebbe minare decenni di sforzi dedicati alla conservazione e rappresentare una significativa battuta d’arresto per quello che viene considerato uno dei più significativi successi dell’Unione Europea per la conservazione della fauna selvatica: il ritorno del lupo in Europa. 

Comunque, dicevamo, non è ancora definitiva. Come spiega aLav in un suo comunicato, “Per ora non cambia nulla: il lupo continua ad essere una specie superprotetta in tutta l’Unione Europea. A dicembre 2024 però il Comitato permanente della Convenzione di Berna potrebbe approvare il declassamento che per essere applicato dovrà passare attraverso la revisione della Direttiva Habitat. Solo a quel punto gli Stati Membri potrebbero recepire il declassamento della protezione della specie nei loro ordinamenti comportando così l’apertura di una stagione di caccia al lupo”. 

In quella sede l’UE sosterrà la proposta come blocco unificato. Mi sembra di capire che l’approvazione sia a questo punto abbastanza probabile, male associazioni promettono battaglia e mobilitazioni da qui a dicembre.

È un po’ strano che dopo tutti gli sforzi fatti anche a livello comunicativo e culturale per riabilitare la figura del lupo si faccia questa marcia indietro così disordinata e goffa, sulla pelle dei lupi. 

Io nel dubbio vi invito a leggere o ascoltare una favola scritta dalla nostra Emanuela Sabidussi all’interno della rubrica Una favola può fare su ICC, che si chiama La nonna del bosco, parla di lupi, di nonne e gioca proprio sul ribaltare gli stereotipi.

Rinnovabili.it pubblica un articolo che si chiama “Cemento a impatto 0: in Lombardia il primo impianto in Italia”, in cui racconta della cementeria di Rezzato-Mazzano, in provincia di Brescia, che – leggo – “potrebbe diventare il primo impianto in Italia a produrre un cemento a impatto zero dal punto di vista della CO2. Il sito di proprietà della Heidelberg Materials, un’azienda tedesca che nel 2016 ha acquistato Italcementi, ed è al centro di uno studio di fattibilità per valutare le opzioni migliori per la decarbonizzazione dei processi produttivi ad alto tenore emissivo. Principalmente con il ricorso alla cattura, stoccaggio e utilizzo della CO2 (CCUS)”.

Ora – c’è subito una cosa che balza all’occhio nel titolo della notizia, un errore che un giornale ambientale non dovrebbe mai fare, ma ne parliamo dopo. Come prima cosa, capiamo meglio la notizia e come funziona questo sistema. La soluzione dell’azienda tedesca per ridurre le emissioni del cemento è quella della CCUS. 

Se avete familiarità con questi sistemi, probabilmente avrete sentito parlare della CCS, ovvero la cattura e stoccaggio di CO2. È una tecnologia, anzi un insieme di tecnologie che mira a catturare la CO2 emessa durante i processi industriali e stoccarla, quindi conservarla da qualche parte, che a volte è nei giacimenti vuoti di gas e petrolio, altre volte è in fondo al mare e così via. La CCUS in questione è una variante sul tema in cui alla cattura e stoccaggio, si aggiunge la U di Utilizzo. Significa che la CO2 catturata viene non solo stoccata da qualche parte ma anche utilizzata all’interno dei processi produttivi. 

Ok fine dello spiegone. Vediamo come funzionerebbe in pratica l’impianto. C’è già un impianto simile che l’azienda ha costruito in Norvegia e che sta facendo da modello, si tratta della cementeria di Brevik. Lì dal 2025 l’impianto della Heidelberg Materials diventerà la prima cementeria a livello mondiale a produrre un cemento a impatto zero. 

In pratica la CO2 che viene normalmente emessa durante il processo industriale del cemento verrà catturata attraverso l’assorbimento chimico con solventi a base di ammine. Che verrà poi stoccata in profondità, nei fondali oceanici al largo della Norvegia.

Dopo la cattura, la CO2 generata dal cementificio viene però solo in parte stoccata. Una quota viene reimmessa nel processo produttivo, quindi se ho ben capito viene inserita nel cemento stesso, che è un cemento che si chiama evoZero e si presenta come il primo cemento “net zero carbon captured” al mondo, ovvero con un’impronta di carbonio netta pari a zero.

Ora, parliamone. Partiamo proprio dal titolo dell’articolo, in cui è presente l’espressione che andrebbe bandita “A impatto 0”, perché niente è a impatto zero, men che meno la creazione di cemento. 

Poi ci sono le questioni relative alla tecnologia CCUS, che è un sistema che ad oggi non ha dato questi grossi risultati, nonostante gli investimenti fiume che sono stati fatti negli ultimi anni. Perché capite che se si trovasse un modo per continuare a bruciare gas, petrolio, carbone senza emettere CO2, sarebbe una pacchia per le industrie del fossile. Solo che questo modo al momento non esiste. Il problema di questo tipo di tecnologia è che è molto costosa e ha un bilancio energetico molto sconveniente, cioè serve un sacco di energia per stoccare tutta quella CO2.

Inoltre ci sono rischi potenziali legati allo stoccaggio a lungo termine della CO2, perché se riempiamo il sottosuolo di CO”, questa a un certo punto potrebbe venir fuori che so dopo un terremoto. Poi c’è un tema che non viene esplicitato nell’articolo, ovvero se l’energia necessaria per alimentare il processo di cattura sarà proveniente da fonti rinnovabili o meno. Se non lo sarà, il beneficio in termini di riduzione netta delle emissioni potrebbe essere molto limitato.

Quindi ecco, non è detto che questo modello sia replicabile su larga scala per via dei costi molto elevati e di certo non è a impatto zero. Premesso tutto ciò, bisogna anche dire che il cemento è uno di quei settori cosiddetti “hard to abate”, ovvero in cui è molto difficile abbattere le emissioni di carbonio e renderli più sostenibili. Quindi, se pensiamo che come società avremo ancor bisogno di cemento, e credo che almeno per qualche decennio ne avremo bisogno, allora soluzioni come questa vanno probabilmente comunque esplorate. Cioé, questo settore è uno dei pochi in cui forse la CCS e la CCUS possono avere un senso. Però ecco, l’operazione andrebbe presentata per quello che è: un tentativo di rendere meno impattante la filiera del cemento. Non un cemento ecologico e a impatto 0.

Dalla Thailandia arriva una notizia molto attesa. Martedì il re della Thailandia ha promulgato la legge sul matrimonio omosessuale che, come racconta RSI, era stata votata in marzo dai deputati e in giugno dai senatori, facendo del Paese il primo nel sud-est asiatico a riconoscere l’uguaglianza davanti al matrimonio, indipendentemente dall’orientamento sessuale.

La norma entrerà in vigore fra 120 giorni, per cui le prime nozze gay saranno celebrate nel prossimo gennaio.

La Thailandia in realtà è conosciuta per la sua tolleranza nei confronti della comunità LGBT, anche se fino ad oggi il matrimonio fra due persone dello stesso sesso era vietato. Va ad allungare una lista di ormai una trentina di Paesi che hanno riconosciuto il matrimonio omosessuale a partire dal 2001. I Paesi Bassi furono i primi. In Asia il passo è stato compiuto solo da Taiwan e Nepal.

Mappa

Newsletter

Visione2040

Mi piace


Entra in vigore la direttiva sulla qualità dell’aria! L’Europa verso inquinamento zero – #1002

|

Emporio della solidarietà, il negozio dove non servono i soldi che aiuta le persone in difficoltà

|

Ricecycling Wall, una soluzione abitativa ecologica e naturale realizzata con gli scarti del riso

|

Lutto perinatale: oggi si celebrano i bambini che non ci sono più, ma che restano per sempre nel cuore

|

“Anche lei ha letto su internet di avere l’ADHD?”. Un racconto personale tra neurodivergenza e consapevolezza

|

I benefici dell’educazione outdoor: scoprire la natura per il nostro bene e la sua salvaguardia

|

Incenerimento dei rifiuti: nella giornata mondiale a Catania un evento contro i termovalorizzatori

|

CAES, il bilancio sociale del 2022 premiato per la trasparenza delle informazioni

string(9) "nazionale"