27 Set 2024

Lo sciopero di Repubblica e il pericoloso rapporto fra industria e informazione – #991

Scritto da: Andrea Degl'Innocenti
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La redazione di Repubblica ha scioperato per due giorni per via delle sempre maggiori ingerenze di Exor, la holding degli Agnelli / Elkan che controlla il giornale. Parliamone, e ne approfittiamo per parlare anche di giornalismo e libertà di stampa. Parliamo anche del nostro nuovo podcast per abbonati/e, “Soluscions”, della situazione maschile in Afghanistan, sì maschile avete capito bene, del nuovo governo francese che vuole tassare i ricchi, delle dimissioni dei vertici dei Verdi tedeschi e infine di una bella storia che arriva da Castellammare di Stabia. 

Se vi è capitato di andare su Repubblica fra ieri e l’altroieri, mercoledì e giovedì per intenderci, avrete trovato nella sezione ultim’ora questa scritta: “Il sito di Repubblica non sarà aggiornato fino alle ore 23.59 del 26/9 causa sciopero”.

Sarà per deformazione professionale, ma mi interessa sempre molto quando la redazione di un giornale sciopera, perché significa spesso che c’è qualcosa di interessante sotto. 

Il motivo di questa protesta lo spiega un articolo a firma di Alberto Marzocchi sul Fatto Quotidiano. Ve ne leggo alcuni passaggi:

“Articoli, interviste e approfondimenti venduti alle aziende. Non solo: ciascun pezzo, prima di essere impaginato e andare in stampa, anziché passare dalla redazione, è finito sulla scrivania di Exor (parentesi: Exor è una holding finanziaria della famiglia Agnelli/Elkann che è proprietaria di un sacco di roba sia nell’industria automobilistica, da Stellantis a Ferrari, sia nel settore editoriale, dall’Economist al gruppo GEDI che è editore di parecchi giornali fra cui Repubblica). 

Continuo a leggere l’articolo: “Domani (che sarebbe mercoledì) alle Officine Grandi Riparazioni di Torino si apre la quarta edizione della Italian Tech Week. Grande protagonista sul palco è John Elkann, la cui holding – Exor, appunto – ha organizzato l’evento. E media partner, manco a dirlo, sono i giornali di famiglia, cioè Repubblica e la Stampa. Peccato però che i giornalisti del quotidiano romano abbiano scoperto il trucchetto. 

E cioè che tutto il lavoro da loro prodotto fino a oggi, più quello che dovrà essere svolto nella tre giorni torinese, è stato venduto alle stesse aziende del tech che vi partecipano.

Per questa ragione il comitato di redazione del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari ha indetto uno sciopero di due giorni (mercoledì 25 e giovedì 26 settembre). La mozione è stata approvata a larga maggioranza dai giornalisti e dalle giornaliste: 230 sì, 33 no e 15 astenuti. 

In pratica Exxor, che è l’azienda madre dell’editore di Repubblica, ha venduto alle aziende ospiti dell’evento come contenuti promozionali, e a insaputa dei giornalisti di Repubblica, il lavoro di copertura dell’evento stesso, organizzato da Exxor. Insomma Exxor usa come merce di scambio il lavoro dei giornalisti di Repubblica, a loro insaputa, per far soldi attraverso i propri eventi. 

Non solo: sia Repubblica che la Stampa sono uscite in edicola il 25 settembre con lo speciale relativo alla Italian Tech Week, ma i contenuti in questione non sono apparsi come pubbliredazionali, ovvero articoli a pagamento che per legge devono essere distinti dalle altre notizie, bensì come articoli veri e propri (sottolineo: all’insaputa di chi li ha realizzati). 

La qui la decisione dello sciopero, assunta dall’assemblea dei giornalisti.  Nella nota del Comitato di redazione si leggono anche riferimenti ad altri fatti: “Da tempo denunciamo i tentativi di piegare colleghe e colleghi a pratiche lontane da una corretta deontologia e dall’osservanza del contratto nazionale. La direzione ha il dovere di apportare ogni correttivo e presidio possibile per rafforzare le strutture di protezione della confezione giornalistica di tutti i contenuti di Repubblica, tema sul quale nei mesi scorsi è già stata votata una sfiducia all’attuale direttore”. 

Poi l’assemblea si rivolge “anche all’editore – e non padrone – di Repubblica John Elkann, affinché abbia profondo rispetto della nostra dignità di professionisti e del valore del nostro giornale, testata con una propria storia e identità che non può essere calpestata. La democrazia che ogni giorno difendiamo sulle nostre pagine passa anche dal reciproco rispetto dei ruoli sul posto di lavoro”. 

Ma la faccenda non finisce qui: mentre lo sciopero era in corso, e quindi in teoria il sito di Repubblica non avrebbe dovuto essere aggiornato, sul sito è andata in onda tutta la diretta della Tech Week, l’evento incriminato.

A quel punto il cdr si è rivolto alle associazioni di categoria, diffondendo contemporaneamente una nota, che vi leggo: “Il Comitato di redazione denuncia pubblicamente il tentativo dei vertici della testata di aggirare lo sciopero in corso delle giornaliste e dei giornalisti di Repubblica. Si tratta di un gravissimo comportamento estraneo alla cultura del nostro giornale. 

Abbiamo allertato le associazioni di categoria affinché valutino l’apertura di un procedimento antisindacale. Con questo comportamento, l’azienda e la direzione sembrano gettare la maschera una volta per tutte”. 

Ovviamente sul banco degli imputati finisce di nuovo anche il direttore di Repubblica Maurizio Molinari, per aver consentito questa diretta. E non è la prima volta che succede.

“All’inizio di quest’anno – spiega ancora il Fatto – sia Maurizio Molinari sia John Elkann vennero accusati di “far affondare la nave”, dato che stavano smantellando il gruppo editoriale, a partire dai giornali locali fino alle storiche riviste, come l’Espresso. 

Poi è stata la volta del caso Ghali, quando durante il Festival di Sanremo venne ritirata un secondo prima della stampa, direttamente dal direttore, l’intervista all’artista, reo di non aver citato il massacro del 7 ottobre mentre parlava di pace a Gaza. Infine la sfiducia, votata a larga maggioranza, nei confronti di Molinari, dopo che ad aprile mandò al macero nottetempo 100mila copie dell’inserto economico Affari&Finanza. Il motivo? L’articolo di apertura sui rapporti industriali tra Italia e Francia era risultato sgradito alla proprietà”.

Insomma, la Repubblica sembra allo sbando e in balia di una proprietà che considera l’informazione come uno dei tanti strumenti al servizio dei propri interessi.

Quando vengono fuori notizie e casi come questo spesso si cita il tema dell’assenza, in Italia, di editori puri, ovvero di società la cui unica o principale attività sia proprio quella di fare giornali. Ora: è vero ed è sicuramente un problema, ma è un po’ un luogo comune il fatto che ciò accada solo in Italia. Un’indagine di AGI del 2023 mostra come dei 5 principali quotidiani italiani due siano editi da editori puri o quasi (Il Corriere e il resto del Carlino) e 3 da editori impuri. Mentre in Francia, ad esempio, i tre maggiori quotidiani sono tutti posseduti da editori impuri.

Ovviamente il fatto di essere editori impuri, quindi di affiancare al possesso di giornali la presenza in altri comparti chiave, mette a forte rischio di conflitto d’interesse. Al tempo stesso non possiamo ridurre la crisi di qualità che attraversa buona parte del giornalismo italiano solo a questo fatto. Sia perché non è che essere editori puri sia sinonimo di buon giornalismo, al massimo ne è una precondizione, sia perché c’è, mi pare, anche una questione culturale che noto spesso, ovvero una rinuncia delle redazioni e dei direttori / direttrici spesso a far valere i propri ruoli. Con eccezioni eh.

Quando lo scorso giugno il Ceo del Washington Post, che è di proprietà di Jeff Bezos, non di Giovannino, ha provato a soffocare gli articoli che raccontavano del suo coinvolgimento nello scandalo sulle intercettazioni illegali dei tabloid inglesi, la direttrice del giornale Sally Buzbee, che ha vinto sei premi Pulitzer, si è dimessa immediatamente.

E per non essere tacciato di esterofilia, un caso simile è avvenuto alla direttrice de La Svolta, un piccolo ma interessante progetto editoriale. Cristina Sivieri Tagliabue, la direttrice, aveva infatti deciso di informare correttamente attraverso il suo giornale che l’editore del giornale stesso, Piero Colucci, era coinvolto nelle inchieste di Genova, che hanno portato agli arresti il Governatore della Regione Liguria Giovanni Toti. 

Una decisione doverosa ma comunque coraggiosa, che ha convinto l’editore a licenziare la direttrice, di fatto segnando la morte del progetto editoriale. però è anche attraverso gesti del genere – il coraggio di smascherare il proprio editore, non il licenziamento – che si costruisce una cultura editoriale diversa.

A proposito di giornalismo, ne approfitto per fare un piccolo break autoreferenziale ma che penso vi interessi. Soprattutto se siete abbonati/e. Domani esce la prima puntata del nostro podcast per abbonati, condotto da Daniel Tarozzi, a cui dò la parola per introdurcelo.

Audio disponibile nel video / podcast

Grazie Daniel, direi che le tue parole assumono un senso ancora più profondo alla luce della notizia precedente, quella su Repubblica e il giornalismo in Italia.

La Repubblica – eh sì, oggi sono un po’ ripetitivo – pubblica un articolo a firma di Anna Lombardi dal titolo “Afghanistan, i talebani impongono regole severe anche agli uomini. E qualcuno si pente: “Se avessimo difeso i diritti delle donne non saremmo a questo punto””. 

Vi leggo l’incipit: “Dopo aver azzerato i diritti delle donne – impossibilitate a spostarsi da sole, vestirsi come vogliono, andare a scuola e perfino lavorare – nell’ultimo mese i talebani hanno iniziato a imporre regole strettissime anche agli uomini. E ora che tocca a loro, qualcuno si pente di non aver difeso abbastanza i diritti di mogli, madri e sorelle”.

Se avete ascoltato la puntata di INMR+ sull’Afghanistan – innanzitutto siete delle belle persone, perché significa che siete abbonati a ICC” – e poi saprete che il racconto che si fa in Occidente dell’Afghanistan dei talebani non è del tutto realistico. Ciò non significa che il governo dei talebani non sia estremista da tanti punti di vista, non sia repressivo, soprattutto nei confronti delle donne, ma significa che osserviamo tutto quel sistema con delle lenti occidentali, senza capire la cultura e la storia che ci stanno dietro. 

L’ospite di quella puntata era Guglielmo Rapino, che ha scritto anche una serie di articoli molto molto belli sull’Afghanistan su ICC e che in Afghanistan ci ha vissuto per parecchi mesi, essendo un operatore umanitario per InterSos in un villaggio vicino a Kandahar. 

Guglielmo non vive più in Afghanistan da qualche mese, e quindi mi ha premesso che non è aggiornato al 100% su quello che sta accadendo, ma gli ho chiesto comunque di darci una lettura su questa notizia. A te Guglielmo. 

Audio disponibile nel video / podcast

Saprete forse, ne abbiamo parlato anche qui, che dopo parecchie settimane dal voto la Francia ha un nuovo primo ministro, il conservatore Michel Barnier, voluto da Macron e già molto contestato perché la sua nomina non tiene granché conto del voto popolare. 

Comunque, come una delle sue prime azioni politiche da premier, Barnier ha in realtà fatto qualcosa che va nella direzione opposta alle politiche di Macron negli ultimi anni (non so se con il benestare di Macron stesso, o meno). Ovvero ha aperto alla possibilità di revocare alcuni tagli fiscali promossi proprio da Macron, che nei suoi sette anni alla presidenza, ha puntato molto sui tagli fiscali per ricchi e imprese per stimolare l’economia

Come spiega un articolo di Liz Alderman sul NYT, il nuovo governo sembra intenzionato a cambiare rotta, non tanto per motivi ideologici ma pratici. C’è infatti la necessità di risanare il crescente deficit di bilancio del Paese, che rischia di andare fuori controllo. I tassi d’interesse sul debito francese, che è la seconda economia più grande d’Europa dopo la Germania, hanno raggiunto il livello più alto dalla crisi del 2008, mentre il debito e il deficit del Paese continuano a crescere.

Barnier, in pratica, ha detto che potrebbero essere necessari aumenti delle tasse su imprese e benestanti per cercare di colmare il deficit e rassicurare gli investitori internazionali sulla capacità del governo di affrontare il problema. Tutto ciò nonostante Macron avesse promesso di non aumentare le tasse, in campagna elettorale.

Al volo, notizia sempre di aggiornamento di politica estera, si sono dimessi i vertici dei Verdi tedeschi, dopo il devastante risultato alle elezioni di domenica scorsa in Brandeburgo i vertici dei Verdi si dimettono in blocco. Il clamoroso annuncio è arrivato mercoledì mattina alle in una conferenza stampa in cui Ricarda Lang e Omid Nouripour hanno rimesso la carica di co-segretari con effetto immediato perché “è necessaria una ripartenza del partito che sta vivendo la crisi più profonda dell’ultimo decennio”.

Tutto ciò avviene, se ricordate, dopo aver fallito alle urne in Sassonia e Turingia a inizio mese, e dopo essere usciti anche dal Parlamento di Potsdam per non aver superato la soglia di sbarramento. 

In chiusura voglio segnalarvi una bella storia che esce oggi su ICC e che riguarda un progetto che sorge a Castellammare di Stabia, città conosciuta spesso più per i fatti di Gomorra e dove invece, scopriamo nell’articolo a firma di Antonietta della Femina, ferve anche di attivismo e vita associativa, fatta da persone che quotidianamente si schierano per lottare le inciviltà e l’omertà del territorio.

In particolare l’articolo racconta l’esperienza dell’associazione Protezione Verde ProNatura, nata nel lontano 1978 per sensibilizzare le persone nei confronti della natura e degli ambienti naturali e che negli anni ha fatto un sacco di altre iniziative. Come spesso accade nei territori più problematici nascono le esperienze più belle, come se gli estremi in qualche modo avessero bisogno di compensarsi. Lettura straconsigliata.

Audio disponibile nel video / podcast

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