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17 Giugno 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Conferenza Onu sugli Oceani: a Nizza un passo in avanti verso un Trattato globale

Dalla conferenza ONU sugli oceani al piano marino di Samoa, fino alla crisi Israele-Iran che agita il G7: il punto sulle tensioni globali e le sfide ambientali.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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Trascrizione puntata

Vi avevo promesso che ne avrei parlato ed eccoci qua. La scorsa settimana a Nizza, in Francia, c’è stata la Conferenza delle Nazioni Unite sugli Oceani e allora facciamo un po’ il punto su come è andata. 

Innanzitutto, di che stiamo parlando? Perché fra tutte queste conferenze, Cop, ecc è facile perdersi. 

Qualche anno fa le nazioni unite hanno messo insieme questo sistema abbastanza complesso – e in parte anche lacunoso, ma non apro qui la parentesi – per spingere le società umane verso sistemi più equi e sostenibili. Sto parlando dei famosi 17 grandi obiettivi globali (tipo sconfiggere la povertà, garantire istruzione di qualità, fermare il cambiamento climatico, proteggere la vita sott’acqua, e così via) definiti dalle Nazioni unite all’interno dell’agenda 2030. 

Quasi tutti questi obiettivi vanno perseguiti a livello globale e necessitano di un alto livello di cooperazione. Ma alcuni più degli altri. Mi spiego: se l’obiettivo 4, quello di garantire un’educazione di qualità, è soprattutto compito dei singoli stati, le nazioni Unite possono limitarsi a stabilire degli standard ma poi il compito può anche essere svolto autonomamente dai vari governi, quando parliamo di Oceani e di tutelare la vita sottomarina, ecco, si capisce che il discorso è un po’ diverso. Perché la vita sottomarina non è che conosce o riconosce i confini umani. Gli oceani poi sono perlopiù extraterritoriali, quindi servono per forza regole condivise e un livello di cooperazione altissima. Sennò il rischio è che ognuno faccia come gli pare, e come ci insegna la tragedia dei commons, quando ognuno fa come gli pare e pensa ak suo singolo beneficio, poi a rimetterci sono tutti. 

E quindi su temi del genere l’Onu organizza delle conferenze. In alcuni casi, su temi più esplorati e con una ricerca e una storia più lunga, tipo il cambiamento climatico, queste conferenze sono codificate in incontri come le COP, che hanno una frequenza annuale e sono vincolanti, almeno in teoria. Stesso discorso per la biodiversità.

In altri casi, laddove ancora mancano accordi chiari e patti da rispettare, ci sono delle Conferenze ricorrenti, che non per forza arrivano a documenti vincolanti ma che servono comunque a spingere, coordinare, fare il punto, mettere pressione sugli Stati.

Ecco, la Conferenza sugli oceani che si è da poco conclusa a Nizza era una conferenza di questo tipo, nello specifico il terzo appuntamento della UNOC, la United nations ocean conference. 

L’obiettivo principale di questo incontro era spingere per l’entrata in vigore del Trattato globale sugli oceani. Questo trattato è l’unico strumento legale in grado di creare aree marine protette in acque internazionali, e ha l’obiettivo di proteggere almeno il 30% degli oceani del mondo entro il 2030. Su questo ci sono stati dei passi in avanti importanti. Prima dell’inizio della conferenza erano 27 i Paesi che lo avevano ratificato, ora siamo arrivati a 50 più l’Unione Europea. Ne mancano solo dieci per raggiungere la soglia di 60 necessaria a farlo entrare in vigore. Quindi ci siamo quasi.

Peccato che tra quei Paesi che ancora non hanno completato la ratifica ci sia proprio l’Italia. Il nostro Paese lo ha firmato, ma poi tutto si è fermato lì. 

Meno bene invece gli altri obiettivi della Conferenza. In molti, come racconta Greenpeace in un comunicato, si aspettavano passi in avanti anche sul tema del cosiddetto deep sea mining, cioè l’estrazione mineraria in acque profonde. Ma qui la situazione è più complicata: da un lato crescono le voci che chiedono una moratoria su questa attività, che rischia di distruggere ecosistemi marini ancora poco conosciuti; dall’altro, tanti governi – Italia compresa – restano alla finestra o, peggio, si oppongono a blocchi e moratorie. Alla fine della conferenza, 37 Paesi hanno chiesto ufficialmente uno stop al deep sea mining. Che sono un po’ pochi per sperare di fare pressione sul resto del mondo. E soprattutto grandi attori globali come Usa e Russia non fanno parte di questo gruppo. Washington ha avviato la concessione di licenze nazionali, mentre Mosca resta contraria al Trattato sull’Alto Mare, temendo ripercussioni sul settore della pesca.

Anche sul fronte della plastica, i risultati sono stati più modesti. Nonostante un documento politico firmato da 97 Paesi per un trattato ambizioso, tutti i principali produttori di petrolio – quindi di plastica, che del petrolio è un derivato – hanno evitato impegni significativi. tranne il Canada. 

Così come resta irrisolto il nodo dei finanziamenti per l’azione climatica, su cui i Paesi più vulnerabili – come le piccole isole – continuano a sollecitare i paesi più ricchi. 

Il quadro complessivo però, al netto di tutto questo e anche se potrebbe sembrare il contrario, è piuttosto positivo. E per capirlo bisogna osservare non solo gli obiettivi raggiunti ma la qualità del processo in atto. Per farlo mi sono rivolto a Vienna Eleuteri, antropologa e scienziata della sostenibilità, che era presente alla conferenza ed è anche intervenuta in diversi panel. Vienna era lì anche per presentare un sistema innovativo per ridurre l’impatto sugli oceani delle imprese del settore turistico. Una cosa davvero interessante, che però vi racconteremo in un articolo dedicato.

Audio disponibile nel podcast

Comunque, a proposito di oceani, come spesso accade diversi paesi annunciano impegni o nuove aree marine protette proprio in occasione  alla vigilia di eventi come questo. È il caso di Samoa, che è diventata uno dei primi Stati insulari del Pacifico ad adottare un Piano Spaziale Marino legalmente vincolante. Un un piano che permette al Paese di proteggere in modo completo il 30% delle sue acque oceaniche – parliamo di un territorio marino di circa 120.000 chilometri quadrati – e di gestire in modo sostenibile il 100% del proprio oceano.

Un passaggio storico, approvato ufficialmente dal governo e inserito nel quadro legislativo del Paese, che fissa un esempio globale di come i cosiddetti “large ocean states” possono prendersi cura del proprio mare.

Il ministro dell’Ambiente di Samoa, il cui nome non mi avventurerò a pronunciare, (Toeolesulsulu Cedric Pose Salesa Schuster), ha spiegato che il piano nasce per rispondere alle tante minacce che incombono sull’oceano: il cambiamento climatico, la pesca eccessiva, il degrado degli habitat. E ha detto una frase molto bella: “Il nostro oceano ci ha sostenuto per generazioni, ora tocca a noi assicurarci che resti sano e prospero anche per le generazioni future.”

Il piano prevede la creazione di nove nuove aree marine totalmente protette, per un totale di 36.000 km², e in linea con quanto ci spiegava prima Vienna Eleuteri integra anche le pratiche tradizionali di gestione delle comunità locali, come le riserve di pesca e le aree marine protette a livello distrettuale. Quindi un approccio che unisce scienza, saperi locali e il coinvolgimento attivo di 185 comunità. Molto interessante.

Proseguono i bombardamenti reciproci fra Israele e Iran. Anche se con risultati piuttosto asimmetrici. Sia in termini di morti (un rapporto di 10 a 1) che di risultati strategici. Ieri Netanyahu ha annunciato di aver preso il controllo dello spazio aereo iraniano. Significa che, almeno secondo lui, l’esercito israeliano è riuscito a penetrare i sistemi di difesa aerea dell’Iran al punto da poter far volare i propri aerei o droni sopra il territorio iraniano senza essere fermato. Non è detto che sia vero, perlomeno non del tutto, ma per adesso la superiorità militare israeliana sembra evidente.

E mentre ieri la guida suprema iraniana si sarebbe rifugiato in un bunker sotterraneo a Teheran e starebbe trattando un piano di figa con la Russia – sempre secondo i media occidentali eh – ieri è arrivato un attacco piuttosto efferato dell’esercito israeliano, forse il primo crimine di guerra di questo nuovo conflitto, che Israele sembra portare avanti con la stessa spregiudicatezza con cui ha condotto la guerra a Gaza. Sto parlando del bombardamento della sede della televisione di stato della repubblica islamica dell’Iran. 

Racconta Domani che “L’emittente statale iraniana, IRIB, si trova nell’area interessata dalla minaccia di evacuazione. Un filmato trasmesso dalla stessa emittente mostra la presentatrice in diretta mentre si sente una forte esplosione. Sahar Emami, conduttrice dell’Iranian Broadcasting System, è tornata alla diretta di Khabar Network, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Mehr. L’attacco è avvenuto dopo l’avvertimento di oggi del ministro della difesa israeliano Israel Katz, che ha dichiarato: “Il portavoce della propaganda e dell’incitamento iraniani è sul punto di scomparire. L’evacuazione dei residenti nelle vicinanze è iniziata”.

Il giornalista iraniano Younes Shadlou ha raccontato ad Al Jazeera che “molti suoi colleghi si trovavano ancora all’interno della sede della televisione di Stato iraniana quando è avvenuto l’attacco israeliano. «Non so quanti dei miei colleghi siano ancora dentro in questo momento», ha riferito dal di fuori dell’edificio in fiamme a Teheran. «Ci erano stati dati avvisi di evacuazione, ma tutti sono rimasti fino all’ultimo momento per mostrare al mondo il vero volto del regime sionista.»

In tutto ciò sempre ieri è andato in scena, in un clima ovviamente bollente che ha strravolto l’Odg, il G7 in Canada. Si doveva parlare molto di dazi fra Trump e Ue e Giappone, e un po’ se n’è parlato, ma la guerra fra Israele e Iran ha monopolizzato l’incontro. Sempre Domani racconta che “l’attore principale, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha iniziato a fornire qualche dettaglio sui possibili contorni della trattativa. Facendo discutere come al solito: prima, in un post su Truth, Trump ha affermato che «Israele e Iran dovrebbero raggiungere un accordo, e lo faranno», facendo intendere che la sua mediazione sarà decisiva «proprio come io ho convinto India e Pakistan» a fare un accordo. 

Per poi aggiungere, parlando ad Abc News, che un coinvolgimento Usa nel conflitto è «possibile». E finendo con l’apertura alla possibilità che il presidente russo, Vladimir Putin, faccia da mediatore per un accordo tra le parti. «È pronto, mi ha chiamato per parlarne. Ne abbiamo parlato a lungo», ha dichiarato Trump. Una possibilità che il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha discusso in un colloquio con l’omologo turco, Hakan Fidan. 

Ecco, questi all’incirca gli aggiornamenti.

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