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16 Giugno 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Israele-Iran: le ragioni e le conseguenze del nuovo conflitto – 16/6/2025

La situazione fra Israele e Iran, la fine della Global March to Gaza prima si iniziare e come è andata la Conferenza Onu sugli oceani.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
israele iran

Questo episodio é disponibile anche su Youtube

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Nella notte fra giovedì e venerdì da Israele è partita una pioggia di missili contro Teheran, la capitale dell’Iran, aprendo così un nuovo fronte, anzi forse il fronte principale per quanto riguarda il governo israeliano, tanto da far dichiarare a Netanyahu nel weekend che Gaza diventa un fronte secondario.

Nel fine settimana i bombardamenti sono proseguiti, dall’una e dall’altra parte (perché a quel punto l’Iran ha risposto), con decine di morti e molte perdite strategiche importanti soprattutto sul fronte iraniano.

Cerchiamo, al solito, di partire dai fatti e capire cosa è successo, poi cerchiamo di capire perché è successo e infine qualche commento. Il solito schema.

Nella notte fra giovedì 12 e venerdì 13 giugno l’esercito di israele, su decisione del governo Netanyahu, ha lanciato l’operazione Rising Lion, un attacco missilistico e aereo senza precedenti su Teheran. Dico senza precedenti perché non c’è mai stato un attacco su questa scala, nella storia recente delle relazioni tra i due Paesi.

Oltre 200 aerei da combattimento hanno colpito più di 100 obiettivi strategici in Iran, tra cui siti nucleari, basi militari e residenze di vertici iraniani. Sono stati uccisi alti ufficiali delle guardia rivoluzionarie, i cosiddetti pasdaran, che sarebbe quell’esercito speciale creato dopo la Rivoluzione Islamica del 79 per proteggere il sistema religioso-politico dell’Iran e che adesso è il corpo militare più potente del paese. In particolare sono stati uccisi il suo comandante Hossein Salami e il capo di stato maggiore Mohammad Bagheri. 

Oltre a loro sono stati uccisi diversi scienziati nucleari di rilievo. E colpiti alcuni obiettivi legati al programma nucleare iraniano. Secondo il britannico The Times l’operazione ha previsto anche l’infiltrazione di droni e agenti Mossad in Iran per neutralizzare difese antimissile iraniana. 

Un’operazione improvvisa, che sembra aver colto alla sprovvista il regime iraniano. Scrive il New York Times che Teheran potrebbe aver fatto un errore di calcolo sulle tempistiche dell’attacco israeliano, che lo ha portato a non essere pronto a gestirlo. Secondo questa ricostruzione, i funzionari del regime non si aspettavano che l’attacco avvenisse prima di un eventuale fallimento dei colloqui sul nucleare con gli Stati Uniti, che erano ripresi ad aprile e avevano nuovi appuntamenti in programma, il primo dei quali proprio domani in Oman. Al momento sono stati sospesi.

Comunque, all’azione israeliana è seguita la risposta dell’Iran, che venerdì ha lanciato contro le città israeliane decine di missili balistici, che sono questi missili giganteschi che vengono lanciati nello spazio e poi precipitano contro il bersaglio da altezze elevatissime, a una velocità molto alta. Sono state colpite tra le altre Tel Aviv e Gerusalemme. La maggior parte dei missili è stata intercettata, ma molti hanno comunque raggiunto le città: tre persone sono state uccise e decine ferite. 

Da lì sono proseguiti bombardamenti reciproci, che proseguono tutt’ora. L’amministrazione Usa ha fatto da subito sapere di essere al corrente dell’operazione ma di non aver partecipato direttamente alla fase offensiva, mentre sta partecipando alla difesa di Israele. Trump ha anche fatto intendere che spera di ottenere dei vantaggi dall’operazione israeliana, ovvero di costringere l’Iran ad accettare l’accordo sul nucleare. 

Comunque, ecco, questi all’incirca sono i fatti. Ora, cerchiamo di capire PERCHE’. Su Valigia Blu Massimo Chierici prova a ricostruire il percorso che ha condotto fino ai concitati fatti di venerdì.

Leggo: “Per capire i motivi dietro gli attacchi aerei di giovedì notte di Israele in Iran, bisogna partire da un altro giorno di giugno, di oltre 40 anni fa, quando nacque la Dottrina Begin. Il 7 giugno 1981 alle 15.55, infatti, dalla base aerea di Etzion nel Sinai, decollarono 8 cacciabombardieri ognuno con una bomba ad alta penetrazione da 900kg e 6 caccia di scorta per compiere quella che venne chiamata in codice Operazione Babilonia.

La missione era distruggere il reattore nucleare iracheno Osiraq nel complesso di Al-Tuwaythah, a circa 20 km da Baghdad. Fin dalla metà degli anni ‘70, il regime baathista di Saddam Hussein aveva iniziato, con l’aiuto della Francia e in minima parte dell’Italia, a dotarsi di tecnologia nucleare, ufficialmente per scopi civili. Nel 1979 la CIA e altri servizi segreti tra cui il Mossad, dalla valutazione tecnica complessiva rispetto agli utilizzi “civili” dichairati, conclusero che gli scopi erano militari.

Alla notizia che la centrale stava per diventare operativa entro poche settimane, nel maggio 1981, Israele decise di intervenire. Dopo un volo di 1100 km e un attacco di 2 minuti, gli aerei israeliani erano di ritorno dopo aver distrutto i due reattori nucleari iracheni.

Alle ore venti di quello stesso 7 giugno venne convocata una conferenza stampa, e l’allora Primo Ministro Menachem Begin, il primo di destra dalla fondazione dello Stato di Israele, dichiarò: “Proclamiamo una nuova dottrina di difesa. Non tollereremo l’acquisizione di armi nucleari da parte di alcuno Stato arabo, né permetteremo agli arabi di sviluppare capacità nucleari. Difenderemo i cittadini di Israele per tempo, e con tutti i mezzi a nostra disposizione”

Nasce così la Dottrina Begin che, edulcorata dai toni di Menachem Begin, recita: “Israele non permetterà che un paese ostile nella regione si doti di armi nucleari, e agirà preventivamente per impedire che ciò accada, anche unilateralmente e con l’uso della forza”.

Vi riassumo il resto del pezzo: dal 2007 a oggi, Israele ha applicato la cosiddetta Dottrina Begin per impedire che i Paesi ostili sviluppassero un’arma nucleare. Lo ha fatto in Siria nel 2007 e in Iran con una serie di azioni mirate dal 2010 in poi. Parliamo di almeno 10 omicidi mirati, tra cui 5 fisici nucleari di primo piano, e diversi sabotaggi: incendi, esplosioni, blackout alle centrali di centrifugazione di Natanz e persino il celebre attacco informatico con il virus Stuxnet, che ha messo fuori uso le centrifughe iraniane.

Quella tra Iran e Israele è una delle guerre non dichiarate più lunghe dei nostri tempi, che si intreccia con il conflitto, ancora più antico e complesso, tra sciiti e sunniti. Per l’Iran sciita Israele è il simbolo dell’Occidente e della commistione di interessi fra i sunniti della penisola arabica (Arabia saudita in primis) e l’Occidente. 

Dall’altra parte, Israele cerca di contenere le ambizioni iraniane, soprattutto sul nucleare: se Teheran ottenesse l’arma atomica, si arriverebbe a una sorta di equilibrio del terrore che indebolirebbe la superiorità militare israeliana nella regione. Dopo decenni di scontri indiretti (finanziamenti ai gruppi armati, omicidi mirati, cyber-attacchi), il 2024 ha segnato un’escalation con due attacchi diretti iraniani contro Israele e la successiva risposta israeliana. E con questo fine settimana si entra nella guerra vera e propria. 

L’Iran oggi – continua Valigia Blu – dispone di oltre 13.500 centrifughe e scorte di – si stima – 275 kg di uranio arricchito al 60%, un passo non lontano dalla soglia necessaria per costruire la bomba. E ha già la capacità missilistica per colpire Israele, come abbiamo visto.

Sul fronte politico, poi, le recenti scelte di Israele si inseriscono nella Dottrina Begin e in una reale esigenza strategica, ma si intrecciano anche con la crisi personale e politica di Benjamin Netanyahu: un premier sempre più isolato, indebolito da scandali e processi, che sembra incapace di guardare oltre la difesa del proprio potere. Una figura che rischia di essere ricordata non per la sua leadership, ma per essere stata travolta dalle proprie contraddizioni.

Quindi ecco, secondo Valigia Blu, in linea con quanto hanno riportato inizialmente i media di mezzo mondo, l’obiettivo principale dell’operazione militare israeliana era colpire il programma nucleare iraniano.

Nel corso del weekend però ci si è accorti che gli obiettivi legati al programma nucleare, quindi centri di ricerca, scienziati, ecc, erano solo un pezzetto dell’operazione, che invece era anche, forse soprattutto una di quelle operazioni che in gergo vengono chiamate “decapitation strike”. Una locuzione che possiamo tradurre con “attacco di decapitazione”, ovvero un’operazione militare mirata a eliminare i vertici politici o militari di un nemico, con l’obiettivo di paralizzare la sua capacità di comando e controllo.

In questo caso, Israele ha puntato direttamente ai pasdaran, appunto i Guardiani della rivoluzione. Perché l’apparato militare dell’Iran è formato da due forze armate distinte, due grandi eserciti che si devono coordinare tra loro, ci sono appunto i Guardiani della rivoluzione e poi ci sono le forze armate regolari. Ma i guardiani della rivoluzione è l’esercito più strutturato e con più risorse. 

Restano ancora da chiarire diverse cose. Ad esempio il ruolo degli Usa è abbastanza ambiguo. L’amministrazione Trump sostiene di non aver partecipato, ma sembra chiaro che abbia almeno avallato l’operazione, sta aiutando Israele nella difesa e ieri Elon Musk – che dopo il suo allontanamento anche piuttosto violento dall’amministrazione ha comunque riparlato al telefono con Trump – ha annunciato su X “di aver attivato il servizio internet satellitare Starlink in Iran”, per aiutare l’opposizione al regime ad organizzarsi. 

E poi c’è da capire cosa succede adesso. Israele si accontenterà di aver decimato i vertici militari e ridotto le ambizioni nucleari iraniane? O punta al cambio di regime? La risposta dell’Iran come e quanto andrà avanti? E come si comporteranno gli altri attori globali? L’Ue, il mondo arabo, la Russia, la Cina? 

Sono tanti interrogativi, in quella che sembra essere una guerra sempre più globale, ma frammentata. Un conflitto molto diverso da quelli del XX secolo, in cui i blocchi erano definiti. In una società in cui tutto è fluido, mutevole e frammentato anche la guerra sembra aver preso queste caratteristiche e penso che dobbiamo aggiornare le nostre lenti per comprenderla.  

Nel fine settimana abbiamo continuato ad aggiornarvi sulla Global march to Gaza, l’iniziativa nata in Francia ed estesasi a oltre 50 Paesi per fare una gigantesca marcia pacificain Egitto fino al confine con Gaza, al valico di Rafah, per sbloccare gli aiuti umanitari. 

Solo che nel fine settimana la Global March to Gaza si è praticamente fermata. Dopo giorni di tensioni, arresti, deportazioni e controlli continui, fra venerdì e sabato la situazione è esplosa. Provo a raccontarvi passo passo cosa è successo. 

In pratica venerdì è stato chiaro che le autorità egiziane non avrebbero collaborato con la Marcia, e non solo non avrebbero accordato i permessi a marciare ma avrebbero fatto di tutto per ostacolarla e impedirla. Ci sono stati scontri all’aeroporto del Cairo, 200 arresti, fermi, persone roinchiuse in stanze senza bagno per ore e così via. 

Delle centinaia di persone giunte al Cairo quindi, alcune sono ripartite, altre sono rimaste bloccate. L’idea iniziale della marcia era di raggiungere in pullman dal Cairo la città di Al-Arish e poi da lì proseguire a piedi per circa 3 giorni fino ad arrivare al valico di Rafah con questa gigantesca carovana pacifica. Da subito però è stato evidente che questa cosa non sarebbe stata consentita dall’Egitto, probabilmente su pressione di Israele. 

Di fronte a questo blocco, venerdì alcune delegazioni della Marcia hanno deciso, senza autorizzazioni, di raggiungere Ismailia, una città a metà strada tra Il Cairo Al-Arish. Una decisione però non condivisa da tutto il gruppo, e criticata dalla delegazione italiana. Vi faccio ascoltare il messaggio che ci ha mandato Antonietta Chiodo, che per tutte questi giorni è rimasta sempre in contatto con la nostra Elisa Cutuli, così come diversi partecipanti.

Audio disponibile nel podcast

Fatto sta che ad Ismailia ci sono stati scontri, centinaia di attivisti fermati ai posti di blocco, e perfino alcune persone scomparse. Il clima è diventato subito pesante, con notizie di beduini assoldati per attaccare i manifestanti e polizia che controllava alberghi e appartamenti. Scene come questa che vi faccio vedere.

Nel frattempo al Cairo l’atmosfera è diventata surreale. Come ci ha raccontato Robero Solazzi, che è anche un nostro abbonato, “gli attivisti si muovono a piccoli gruppi per non dare nell’occhio, sempre osservati da agenti in borghese o dalla polizia”. E come se non bastasse, nella notte di venerdì è arrivata la notizia dell’attacco di Israele all’Iran che ha gettato benzina sul fuoco.

Ora la sensazione generale è che la marcia sia finita prima ancora di cominciare. Le relazioni con le autorità egiziane sono a pezzi e la possibilità di ottenere un’autorizzazione per proseguire è praticamente nulla. Qualcuno sta già tornando a casa, altri stanno pensando a nuove forme di protesta. Le proteste però non finiscono qui. Vi faccio ascoltare un ultimo contributo di un’altra partecipante, Patrizia, sulla possibilità di spostare la protesta in Europa.

Audio disponibile nel podcast

Al volo, ma con la promessa di approfondire nella puntata di domani, anche con il contributo di esperti. Si è chiusa con un cauto ottimismo la Conferenza ONU sugli Oceani a Nizza. Quasi 200 Paesi hanno discusso delle principali minacce ai mari, come plastica, pesca illegale e miniere sottomarine. Il risultato più concreto è stato il boom di ratifiche del Trattato sull’Alto Mare, che punta a proteggere il 30% delle acque internazionali entro il 2030: siamo passati da 27 a 50 Stati in pochi giorni. Bene anche le nuove aree marine protette, come la maxi riserva della Polinesia Francese. Meno bene invece sulla plastica, dove i grandi produttori di petrolio continuano a frenare. E sul deep sea mining, il tema più divisivo, la richiesta di moratoria ha raccolto solo 37 adesioni. In sintesi, passi avanti ma ancora tante sfide per salvare gli oceani.

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