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27 Giugno 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Dal quartiere al mondo: pratiche di sopravvivenza al collasso e rinascita – 27/6/2025

Gail Bradbrook propone un’alternativa comunitaria al collasso. A Gaza i neonati muoiono per mancanza di latte. Seabound sperimenta la cattura del carbonio in mare.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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Trascrizione episodio

Un nostro abbonato ci ha segnalato un testo molto interessante e stimolante, che mi ha appunto stimolato diverse riflessioni e anche alcune critiche, ma che ritengo importante condividere. È un paper che si chiama “So Now What? Movement ecology, collapse and rising fascism” ed è di Gail Bradbrook, co-fondatrice di Extinction Rebellion. Lasciate che vi dica due parole su di lei perché è un personaggio che va un minimo spiegato.

Gail Bradbrook infatti unisce un background scientifico – ha un dottorato in biofisica molecolare – con un percorso spirituale e politico molto intenso. Viene da Stroud, un paese inglese noto per le sue comunità alternative, ha fatto esperienze con pratiche psichedeliche, cerimonie rituali, e ha saputo trasformare il dolore climatico in una forma concreta di attivismo collettivo. 

È stata fra le voci che, nel 2018, hanno lanciato il movimento XR, e da allora ha contribuito a cambiare il linguaggio e le forme della disobbedienza civile climatica, mettendo al centro la crisi come esperienza emozionale, sistemica e collettiva. Il testo di cui vi parlo oggi nasce da questo crocevia di esperienze.

Il testo come vi dicevo si chiama “So Now What? Movement ecology, collapse and rising fascism”, Ovvero “A adesso? Ecologia dei movimenti, collasso e fascismo emergente” e parte da una constatazione brutale: siamo nel mezzo di un collasso sistemico, e non possiamo più far finta di niente. Il collasso non è un evento lontano, ma è già in corso, è sociale, climatico, psicologico, spirituale. 

E la prima cosa che dobbiamo fare, dice Bradbrook, è trovare il coraggio di sentire tutto questo dolore, non rimuoverlo, non anestetizzarci. Lei racconta per esempio il lutto per i ghiacci che scompaiono, per i giovani che cadono nella depressione o nel suicidio perché sentono che non c’è futuro. 

E dice: “va bene anche spegnere un attimo tutto, respirare, piangere, abbracciare un albero, bere un gin, se serve. Ma poi bisogna tornare. Perché il dolore, se lo lasci andare, diventa forza, diventa compost per qualcosa di nuovo”. Ecco, questa è una parte essenziale. Mai negare il dolore: dobbiamo viverlo, starci dentro, sentirlo scorrere nelle nostre vene se vogliamo ripartire e sperare di fare qualcosa di sensato. Da qui parte la sua proposta: trasformare il dolore in azione, ma non in qualsiasi azione – in azione trasformativa, collettiva, strategica.

Bradbrook parte chiedendosi: ma come siamo arrivati fin qui? E risponde con una lettura storica particolare: su cui personalmente ho alcuni dubbi ma che vi riporto. Secondo lei, il paradigma dominante della nostra civiltà – controllo, dominio, accumulazione – nasce da un’antica perdita di fiducia nella vita, forse legata a catastrofi climatiche passate. 

In pratica secondo l’autrice l’umanità vive da millenni sotto l’influenza di un trauma antico, un trauma di civiltà. È una teoria che riprende anche da neuroscienze e antropologia, secondo cui ci sarebbe stato un momento, forse 5 o 10 mila anni fa, in cui alcune popolazioni umane, di fronte a disastri ambientali o carestie, hanno perso fiducia nella vita, nel flusso naturale delle cose, e hanno cominciato a voler controllare, dominare e accumulare

È lì che secondo l’autrice nasce la logica del patriarcato, dell’impero, della proprietà, della colonizzazione. E questa logica ha avuto successo, perché ha permesso di sopravvivere – ma ha lasciato dietro di sé traiettorie di dolore, disconnessione e distruzione. Intere popolazioni sono state ridotte a forza-lavoro, le terre sono state recintate, i corpi delle donne e dei popoli colonizzati sono stati sfruttati. E oggi quella stessa logica si riproduce nei modelli neoliberali, nelle gerarchie aziendali, nella distruzione ecologica. 

Vi esplicito subito i miei dubbi: spesso non mi convincono le teorie della Golden Age, perché mi sembrano rispondere più a un nostro bisogno psicologico di pensare che sia esistita un’epoca in cui tutto andava bene, prima che qualcosa andasse storto (così come tendiamo a pensare che esistano luoghi in cui tutti va bene ed è perfetto). Mentre ci sono diverse evidenze storiche che sfruttamento, violenza e distruzione siano elementi presenti non in tutte le società umane ma probabilmente in tutti i periodi storici. Quindi ecco, non sono convinto di questa teoria, ma non escludo che possa essere vera. Solo, prendiamola con le pinze, non come oro colato. 

Comunque, partendo da questa ipotesi, Bradbrook arriva però a un assunto più condivisibile per quanto mi riguarda, ovvero che il cambiamento climatico non è solo un problema tecnico, ma l’epilogo di una disconnessione della specie umana dalla vita. Per dirla in altri termini, dal mio punti di vista più scientificamente corretti, è il sintomo di un mancato sviluppo della biofilia, che come ci ricorda sempre Daniel Tarozzi è una caratteristica innata, ma non istintiva. Quindi se non la coltiviamo, non la sviluppiamo. 

Fatto sta che Bradbrook propone un cambiamento che è anche spirituale, relazionale, culturale. Per guarire, dobbiamo prima riconoscere il trauma, sentire cosa ha prodotto, e poi – insieme – imparare a vivere diversamente.

Da lì è partito un meccanismo che conosciamo bene: guerra, colonizzazione, sfruttamento, distruzione ambientale. E abbiamo costruito sopra a questo trauma intere strutture economiche e politiche. La finanza, i media, l’educazione: tutto fondato sull’idea che l’essere umano deve dominare il mondo. Ma questo sistema è arrivato al capolinea, ed è strutturato per crollare. E quando crolla – ci dice – si aprono tre scenari: o il fascismo tecnologico e repressivo, o il caos totale, o un “terzo attrattore”, cioè un altro modo di vivere, completamente diverso.

E qui arriva il cuore della proposta: costruire questo “terzo attrattore”, dal basso, con lentezza, con radicamento nei territori. Come? Partendo dalle comunità, dai quartieri, e creando dei luoghi fisici che lei chiama “Lifehouse”. Cioè spazi in ogni quartiere dove si tiene insieme la rete: riunioni, attrezzi, riserve d’acqua, conoscenze, mappe, ma anche pratiche di ascolto, guarigione, celebrazione. Sono luoghi di resilienza pratica ma anche culturale. E attorno a questi, nascono le assemblee popolari, che sono il vero cuore democratico della sua proposta: non consultazioni, ma spazi reali di potere dove si decide come affrontare la crisi – cosa coltivare, come gestire l’acqua, come resistere agli sfratti, come rispondere a un’alluvione o a una carestia.

Bradbrook dice chiaramente che questo processo richiede anche resistenza civile nonviolenta: bloccare le multinazionali che inquinano, impedire le privatizzazioni dell’acqua, resistere a forme di autoritarismo o militarizzazione. E dice anche che dobbiamo riconnetterci tra comunità, costruire una rete di reti, scambiandoci strumenti, saperi, risorse. Insomma, costruire un tessuto che sia contemporaneamente locale, regionale e globale. E da lì, magari, riprendere anche il controllo delle istituzioni, ma dal basso, non aspettando che cambino da sole.

Una cosa importante che dice è che questa non è solo una strategia tecnica o politica, ma anche spirituale. Parla di “medicine” personali – cioè le pratiche che ci tengono vivi, che ci fanno ridere, respirare, amare – e dice che dobbiamo usarle per sostenerci. E poi parla della necessità di costruire cultura, non solo infrastrutture: serve una narrativa nuova, che dica che possiamo vivere bene senza distruggere, che la cooperazione è più forte della competizione, che la diversità è un dono.

In sintesi, quello che propone Bradbrook è di organizzarci a livello di quartiere, mappare chi sa fare cosa, cosa serve, dove possiamo ritrovarci. Fare esercizi di immaginazione: se domani saltasse la rete elettrica, o se avessimo tre settimane senza cibo, cosa faremmo? E poi creare assemblee permanenti, spazi dove chiunque possa portare una proposta e vederla realizzata, insieme. Non è facile, ovviamente. Ma – dice lei – forse è l’unica cosa sensata che possiamo fare, e magari, nel farlo, possiamo anche ritrovare un senso del vivere, del prenderci cura, del ridere insieme, del ballare sotto la pioggia anche quando tutto va a rotoli.

Se ricordate l’articolo di Naomi Klein sul capitalismo della fine dei tempi, ecco, ci troverete molte somiglianze. Mi suscita la stessa ammirazione e le stesse perplessità. Siamo davvero ancora capaci, in un mondo così fluido e spesso virtuale, di trovare delle dimensioni di quartiere, di costruire relazioni stabili con i nostri vicini, chiunque essi siano? E loro lo vorranno?

E la soluzione passa attraverso il mettersi in rete “fra buoni” (scusate la semplificazione, ma giusto per intenderci)? Oppure è necessario provare a coinvolgere tutti, che poi sarebbe la base del cambiamento sistemico? E se è necessario coinvolgere tutte le parti, qual è il piano? Insomma, ci sono un sacco di interrogativi, ma di nuovo, penso che la cosa più importante è che se ne torni a parlare. Che si torni a immaginare. Personalmente sento che siamo ancora abbastanza lontani da una soluzione praticabile, ma che immaginare e praticare soluzioni è la cosa più importante che possiamo fare. 

C’è una storia interessante che arriva da un angolo insospettabile di Londra, un parco industriale a Chingford lungo il fiume Lea, dove una startup sta cercando di rendere più sostenibile uno dei settori più inquinanti del mondo: il trasporto marittimo. Parliamo di un’industria che produce circa il 3% delle emissioni globali di gas serra – più dell’intero comparto dell’aviazione – con oltre 50.000 navi cargo che solcano i mari in ogni momento. 

La startup si chiama Seabound e l’idea, raccontata da un lungo articolo del Guardian è semplice quanto potenzialmente interessante: usare la calce viva per catturare la CO₂ direttamente dai fumi di scarico delle navi, in tempo reale, mentre navigano. Funziona così: sopra la nave viene piazzato un container, delle dimensioni di un classico container da carico, quindi molto poco ingombrante, pieno di palline di calce viva. La calce viva è un materiale che quando entra in contatto con l’anidride carbonica (CO₂) genera una reazione chimica detta di carbonatazione, in cui la CO₂ viene assorbita e trasformata in carbonato di calcio (CaCO₃), cioè pietra calcarea.

Nel sistema di Seabound, i fumi dei motori diesel vengono convogliati all’interno di questo container pieno di palline di calce viva avviene la reazione e così a fine viaggio il gas emesso viene intrappolato all’interno di questa pietra calcarea, invece di essere emesso in atmosfera. Quando il contenitore è saturo, si scarica a terra e si sostituisce con uno nuovo carico di calce.

I test hanno dato risultati incoraggianti: l’ultima sperimentazione, su una nave da 3.200 container durante un viaggio attraverso il canale di Suez, ha mostrato che il sistema riesce a catturare il 78% della CO₂ e il 90% dello zolfo presente nei fumi. E la struttura è modulare: si possono aggiungere altri container in base alla lunghezza del viaggio o agli obiettivi di decarbonizzazione della compagnia. 

Dietro questa idea ci sono due donne, Alisha Fredriksson e Roujia Wen, due giovani imprenditrici che hanno deciso di adattare la tecnologia di cattura del carbonio usata nei grandi impianti industriali e renderla portatile. Dopo aver costruito un primo prototipo, sono riuscite a raccogliere circa 4 milioni di dollari in finanziamenti, anche da compagnie di navigazione. E proprio adesso stanno per installare i primi moduli su navi operative. 

Naturalmente, non mancano le critiche: alcune ONG temono che soluzioni come questa possano diventare un alibi per prolungare l’uso dei combustibili fossili, invece di puntare direttamente su carburanti a basse emissioni come l’ammoniaca o l’idrogeno (anche se sappiamo che anche questi hanno diverse controindicazioni). Secondo Fredriksson, intervistata dal Guardian, il sistema Seabound può essere una tecnologia ponte, utile nell’immediato per ridurre le emissioni, in attesa che le soluzioni più radicali diventino economicamente e tecnicamente mature. 

Anche perché le regole stanno cambiando: l’IMO, l’agenzia dell’ONU per il trasporto marittimo, ha appena approvato un accordo che prevede un tetto alle emissioni per nave, con sanzioni per chi lo supera. Ecco perché la modularità di Seabound può diventare un vantaggio strategico: si può aumentare gradualmente il numero di container a bordo man mano che le norme diventano più stringenti. Insomma, una tecnologia relativamente semplice, che si può applicare subito e che potrebbe contribuire in modo significativo alla transizione del settore marittimo, uno dei più difficili da decarbonizzare. 

Insomma, tutto molto interessante. Se però siamo consapevoli che è una soluzione ponte. O una soluzione residuale. Nel senso che per una serie importanti di motivi un sistema realmente sostenibile non può essere basato sulla quantità di scambi commerciali che abbiamo al momento, con beni e merci che navigano da una parte all’altra del globo. Perché comunque ci vuole un sacco di energia, e l’energia non è mai gratis. Dobbiamo limitare gli scambi a ciò che è effettivamente difficile produrre a km0. Però, visto che questo è un processo che non si fa da oggi a domani, nel frattempo ben vengano idee come questa. Se siamo ocnsapevoli che non sono il punto di arrivo, sono il punto di partenza.

Non so se vi siete accorti ma da qualche giorno si parla poco o niente di Gaza. Lo scrive bene Pierre Haski su France Inter, tradotto da Internazionale: il 23 giugno, mentre il mondo tirava un sospiro di sollievo per la fine della guerra lampo tra Israele e Iran, a Gaza le bombe continuavano a cadere. Ma nessuno, o quasi, ne parlava più. L’opinione pubblica si è spostata altrove, anche in Israele, dove prima dell’escalation iraniana c’era stata una certa mobilitazione contro la guerra a Gaza. Gente che scendeva in piazza mostrando le foto dei bambini palestinesi uccisi. Ora, silenzio. 

Escalation che fra parentesi, ha fatto molto bene alla popolarità di Netanyahu, che era in picchiata e si è ripresa nettamente, con il suo partito, il Likud, che è tornato ad essere primo nei sondaggi.

Nel frattempo, la situazione sul campo è sempre più disperata. L’82 per cento della Striscia è ormai sotto controllo militare israeliano, secondo l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite. Ne parla il Post. Parliamo di zone dichiarate militari o soggette a ordini di evacuazione: cioè posti dove i civili, ufficialmente, non dovrebbero nemmeno esserci. Eppure ci sono. Perché Gaza è piccola, sovraffollata, devastata. Il 92 per cento delle abitazioni è stato danneggiato o distrutto. Oltre metà degli ospedali è fuori uso. L’intera popolazione è, o sarà entro settembre, in crisi alimentare. 

E qui arriva una delle notizie più tremende delle ultime settimane. A riportalra in questo caso è un articolo di Fanpage, che racconta come il latte artificiale sta finendo, e i neonati rischiano di morire. A dirlo è Ahmad Al-Farra, pediatra dell’ospedale Nasser di Khan Younis, che ha lanciato un appello disperato. Le scorte di latte sono bloccate ai confini, insieme ad altri beni essenziali, perché Tel Aviv da mesi ha chiuso quasi del tutto i canali umanitari. Questo significa che fuori da Gaza ci sono camion pieni di latte in polvere e dentro ci sono bambini che stanno morendo per mancanza di cibo. 

A tutto questo si aggiunge una gestione degli aiuti che l’Unrwa, l’agenzia Onu sui rifugiati, definisce una “trappola mortale”: l’esercito israeliano ha tolto la gestione alle Nazioni Unite, affidandola a un’azienda privata, e i punti di distribuzione sono crollati. Non solo sono pochi, ma spesso diventano obiettivi sensibili. 

Insomma è una situazione devastante, che avviene sotto i nostri occhi per mano di un governo che ancora stentiamo a definire ostile.

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