12 Ott 2023

L’Amazzonia è a secco, a rischio gli indigeni del grande fiume – #810

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Ci sganciamo momentaneamente dall’attualità di Israele e Gaza per parlare di clima e Amazzonia, perché una gravissima siccità sta mettendo in ginocchio il polmone verde del mondo. Parliamo anche delle assurde vicende di un lago alpino da cui si vuole pompare via l’acqua per fare neve artificiale, della sentenza incredibile (stavolta in senso positivo) su Mimmo Lucano e del primo Congresso mondiale per la giustizia climatica che inizia oggi a Milano, per terminare con la consueta rubrica (anche se abbiamo iniziato ieri) “La giornata di Italia che Cambia”.  

Oggi rifiatiamo un po’ dalle vicissitudini israelo-palestinesi, di cui comunque ci sarà un sacco da raccontare e su cui sto raccogliendo molto materiale interessante, per continuare a parlare di clima. “Alla faccia del rifiatiamo” dirai. “Ridateci la guerra”. E hai anche ragione, ma la situazione climatica dell’Amazzonia ci impone di parlarne. 

Ieri parlavamo dell’ottobre bollente che stiamo vivendo in Italia, ma ci sono luoghi del mondo che stanno soffrendo in maniera peggiore, e il cui impatto a livello di equilibri globali è ben maggiore. Mi riferisco, in particolare, alla foresta amazzonica, cui diversi giornali iniziano a dedicare articoli preoccupati. A preoccupare i giornalisti, ma in primis gli scienziati, è soprattutto la siccità. Ci sono immagini satellitari del Rio delle Amazzoni come non lo si era mai visto, e questo potrebbe avere ripercussioni molto preoccupanti.

Un articolo di Avvenire molto esaustivo a firma di Lucia Capuzzi descrive una situazione sull’orlo della catastrofe: “Capitale delle sillabe d’acqua. Così, in un celebre verso, Pablo Neruda definisce il Rio delle Amazzoni. Il suo scorrere maestoso è il cuore pulsante dell’organismo Amazzonia, nel quale «i fiumi e i ruscelli sono come vene, e ogni forma di vita origina da essa», si legge in “Querida Amazônia”. Eppure, nelle ultime settimane, le vene amazzoniche appaiono prosciugate. Il livello dei principali affluenti sul territorio brasiliano – inclusi i grandi Solimões e Rio Negro, – è calato in modo allarmante, al ritmo di trenta centimetri al giorno”. 

“Non si tratta della diminuzione fisiologica che accompagna la stagione secca, tra giugno e dicembre. È il risultato del Niño cioè dell’aumento della temperatura del Pacifico. Un “danno collaterale” del riscaldamento globale che, ancora una volta, si accanisce sui più fragili ovvero i popoli del fiume, in primis gli indigeni, la cui esistenza, economia, spostamenti dipendono dal suo fluire. Mezzo milione di abitanti della regione con le maggiori riserve d’acqua dolce del pianeta rischiano di restare a secco”. 

Più avanti l’articolo elenca alcuni dei primi effetti di questa siccità estrema: “All’inizio della settimana, i cadaveri di oltre 125 delfini rosa – i “botos”, creature di cui è impregnata la mitologia e la cosmovisione indigena – si sono ammassati sulle rive del lago Tefé, formato dal fiume Solimões. Ad ucciderli, secondo l’Istituto Mamirauá, è stata l’acqua diventata un brodo primordiale – sfiora i 40 gradi – in seguito al calo del livello. 

E non sono morti solo i delfini. Come dice un pescatore di Capanha, “Non abbiamo più niente da pescare. Il fiume sta morendo e con lui moriremo anche noi”. La sua comunità, come centinaia di altre, è isolata perché l’acqua è troppo bassa per navigare. Impossibile raggiungere le città più vicine e ricevere da queste gli approvvigionamenti vitali. Ieri a Manaus, la capitale dell’Amazzonia, dove si concentra la produzione industriale, i negozi sono rimasti vuoti nonostante le svendite. Inutile comprare dato che la mercanzia non può essere trasportata.

Fra l’altro, visto che i problemi, nei sistemi complessi, non vengono mai da soli, succede anche che con i fiumi in secca l’evaporazione si è drasticamente ridotta e la foresta è più secca. Un’occasione ghiotta per quanti vogliono trasformare, con il fuoco, la foresta in una distesa di monocolture intensive. Tant’è che nel mese di settembre – e in controtendenza con i mesi precedenti – sono stati registrati 6.991 incendi, una media di 233 al giorno. Il secondo dato peggiore dal 1998. 

Di fronte al dramma, il governo brasiliano – che considera la protezione dell’Amazzonia fondamentale per risultare credibile agli occhi della comunità internazionale – ha inviato nella regione una delegazione guidata dal vicepresidente Geraldo Alckim per un sopralluogo e ha stanziato l’equivalente di 26 milioni di euro per dragare i fiumi Solimões e Madeira e contrastare gli incendi. Solo nello Stato di Amazonas, quaranta dei 62 municipi sono in stato di emergenza, inclusa Manaus, e le forze armate distribuiscono pacchi alimentari. Gli altri sono in allerta. Le autorità, inoltre, hanno “spento” la maxi-centrale idroelettrica di Santo Antônio, nello Stato di Rondônia. E presto potrebbe toccare ai quattro impianti dell’Amapá e a quello dell’Acre. Il minuscolo villaggio di Vila Arumã, dove vivevano appena mille persone, sulle sponde del fiume Purus, è stato letteralmente cancellato. La collina sabbiosa sul quale sorgeva fino alla settimana scorsa, si è sfaldata e le 45 casette sono state ingoiate, uccidendo due abitanti. I cedimenti di terra sono frequenti nella stagione secca, quando viene meno l’acqua che ne sostiene il peso. Mai però fino a inghiottire un’intera comunità.

Lo scenario oltretutto potrebbe ulteriormente peggiorare. Il Centro di monitoraggio e allerta per i disastri naturali del governo federale l’assenza di piogge rischia di prolungarsi almeno fino a gennaio. Con effetti in tutto il Continente. A cominciare dal lago Titicaca, sulle Ande a cavallo di Perù e Bolivia, già in fase critica. L’acqua è già calata di 60 centimetri: prima della fine dell’anno potrebbe oltrepassare il metro. «Nelle storie dei nostri antenati non viene descritto niente di simile – conclude Lidina, indigena Awa –. I nostri fiumi si sono ammalati di una nuova malattia».

Fenomeni come questo hanno un nome e cognome: crisi climatica. Come racconta Jonathan Watts sul Guardian, “Gli scienziati hanno dimostrato che il caldo micidiale che ha colpito il Sud America centrale negli ultimi due mesi è stato reso 100 volte più probabile dalle emissioni umane che hanno alterato il clima”.

Ovviamente il ritorno del nino ha giocato la sua parte ma un rapido studio condotto dai ricercatori della World Weather Attribution ha rivelato che la crisi climatica causata dall’uomo è stata di gran lunga la causa principale del caldo fuori stagione.

Lo studio ha esaminato i 10 giorni consecutivi più caldi di agosto e settembre in una regione che comprende Paraguay, Brasile centrale e parti della Bolivia e dell’Argentina, dove sono stati emessi avvisi di ondate di calore. Utilizzando un’analisi statistica delle tendenze storiche, dei dati sul campo e dei modelli computerizzati, è emerso che le temperature in questo periodo sono state innalzate di un valore compreso tra 1,4°C e 4,3°C a causa del riscaldamento del clima da parte dell’uomo.

D’altronde, come spiegava sempre al Guardian qualche settimana fa Luca Mercalli, “le ondate di calore sono i fenomeni più facili da ricondurre al cambiamento climatico di origine antropica, mentre per altri fenomeni come uragani o inondazioni ci sono spesso più concause ed è difficile definire esattamente quanto influisca il clima che cambia. 

Al netto di tutto ciò, resta il fatto che la notizia dell’Amazzonia è una di quelle che almeno a me, non so a voi, tocca particolarmente. L’Amazzonia è nel nostro immaginario l’emblema della natura selvaggia e incontaminata e vederla soffrire così fa soffrire tremendamente la parte più+ selvaggia, biofilica, connessa con il resto di tutte e tutti noi.

Credo che però in questo caso sia un dolore necessario, che va ascoltato e abbracciato per trovare la forza di cambiare, davvero. Vi consiglio di restare qualche secondo in ascolto di quella parte di voi che soffre nel sentire della sofferenza dell’amazzonia. Di non accantonare subito questo dolore per pensare a qualcosa di più allegro ma di starlo a sentire per un po’. Perché ci porta delle informazioni importanti. Ci dice che dobbiamo cambiare adesso.

Legato al tema dei cambiamenti climatici, e anche della difficoltà nel cambiare le nostre abitudini e l’inerzia del sistema, vi voglio raccontare una storia che non troverete sulle prime pagine dei giornali, ma che è cruciale e anche sintomatica dei tempi che viviamo. Ce l’ha segnalata un nostro storico agente del cambiamento, Davide Capone, che ringrazio. 

La storia si svolge al passo del Gavia, nel cuore del territorio del Parco Nazionale dello Stelvio, dove l’acqua dal Lago Bianco verrà prelevata per produrre neve artificiale, e quindi rimettere in moto la macchina del turismo sciistico che rischia di fermarsi per via dei cambiamenti climatici.

Leggo da un articolo a firma di Giorgia venturini su FanPage:

C’è un lago alpino al Gavia, il passo di montagna che collega Ponte di Legno (Brescia) a Santa Caterina Valfurva (Sondrio), che alcuni cittadini della zona stanno provando a “salvare”. Questo specchio d’acqua nel Parco dello Stelvio è il lago Bianco e da quest’estate è assediato dalle gru di un cantiere, approvato dalle istituzioni locali: l’obiettivo è di riuscire a prelevare l’acqua durante i mesi invernali e garantire sempre più neve artificiale necessaria per la pista di fondo del paese dell’Alta Valtellina. 

“Per sostenere l’azienda del turismo dello sci si sta distruggendo l’ambiente”, ripetono più volte i cittadini della zona che hanno formato il comitato Salviamo il lago bianco che ha già presentato esposti in Tribunale e una petizione alla comunità europea.

Negli anni scorsi l’acqua utilizzata per creare neve con i cannoni era prelevata dai torrenti della valle. Ma a quanto pare ora non basta più. Ecco quindi che nel 2019 è stato autorizzato (dopo un iter di dieci anni, fra l’altro, mi dice una fonte) il progetto di approvvigionamento idrico per la pista di sci da fondo di Santa Caterina Valfurva che coinvolge il lago Bianco. E quest’estate sono arrivate le gru.

Il 10 settembre il Comitato Salviamo il Lago Bianco ha organizzato una camminata solidale al passo Gavia con circa 300 persone (fra l’altro vi invito ad andare a vedere le immagini e il video di questa giornata, lo trovate sotto fonti e articoli) e il primo ottobre è stata presentata una diffida con l’obiettivo di fermare tutti gli scavi. Diffida che non ha mai ricevuto risposta. 

Dietro a questa decisione scellerata ci sono il comune di Valfurva, che è il committente, con la connivenza dell’Ente parco. L’articolo di Fanpage poi riporta la testimonianza di Matteo Lanciani, uno dei membri del comitato, che spiega che: “Tutti gli enti della zona hanno dato il via libera a questo cantiere ed è dal 2020 che la cittadinanza solleva il problema”. 

“Non dobbiamo dimenticare – continua Lanciani – che il lago si trova in una zona di protezione speciale comunitaria, nonché riserva naturale statale. In questo habitat non si potrebbe neanche spostare un sasso, invece ci sono le gru per scopi industriali. Come è possibile nel 2023 pensare di andare a sfondare un laghetti alpino? Si tratta di un lago naturale già in sofferenza per questioni che sono ormai note a tutti. Noi contestiamo il cantiere ma anche gli organi statali perché nonostante le diffide e gli esposti nessuno sta andando a fermare tutto questo”.

Ecco, questa è la situazione. L’articolo di Fanpage è del 9 ottobre, per cui ho chiamato Matteo Lanciani, la stessa persona intervistata nell’articolo, per farmi dare qualche aggiornamento, scoprendo una novità che sfiora l’assurdo. Ma sentitela direttamente dalla sua viva voce. 

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Ringrazio davvero Matteo Lanciani per la testimonianza. Storie come questa sono sintomatiche di quanto spesso continuiamo a prendere decisioni per inerzia. Abbiamo costruito un sistema che funziona in un certo modo, con interessi economici, filiere, sistemi produttivi e abitudini personali e collettive sedimentate che producono risultati ormai completamente irrazionali.

Siamo in emergenza climatica e idrica, e visto che anche l’acqua a valle per fare la neve artificiale manca che facciamo? la prendiamo direttamente da un lago alpin protetto. poi quando avremo finito anche quella che faremo? Perché tutto questo meccanismo continua ad aggravare il problema e rimanda solo nel tempo l’inevitabile, rendendo le scelte future obbligate e sempre più drastiche. Oggi manca la neve per sciare, e rinunciare al turismo sciistico ci sembra una richiesta impossibile, E se domani l’acqua che manca fosse quella da bere? L’esempio dell’Amazzonia di prima dovrebbe riassestare un po’ le nostre priorità. 

Per fortuna questa stessa storia mostra anche come ci siano centinaia di persone disposte ad attivarsi, che salgono ai 2600 metri per manifestare, che si informano, spulciano le carte, conoscono il progetto meglio dei tecnici, dedicano tempo, energie e passione a contrastare un’opera inutile e dannosa. 

Per quanto riguarda questo format, prometto di continuare a seguire gli aggiornamenti di questa vicenda davvero emblematica.

Ieri c’è stata una sentenza importante nel processo a Mimmo Lucano. Immagino sappiate di chi e cosa sto parlando, ma per riassumere, Mimmo Lucano è l’ex sindaco di Riace, che aveva creato un modello di integrazione unico in Italia e che, forse anche per questo, era stato prima accusato (assieme a diversi suoi collaboratori) e poi condannato in primo grado a 13 anni e due mesi per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e altri reati.

Ieri i giudici della Corte d’Appello di Reggio Calabria hanno fatto saltare tutto l’impianto dell’accusa e hanno assolto 16 imputati da tutte le accuse e stabilito solo una condanna a un anno e sei mesi con pena sospesa per abuso d’ufficio per Lucano e una condanna a un anno e tre mesi, anche lei con pena sospesa, a Maria Taverniti. 

Come scrive Alessia Candito su Repubblica, i giudici hanno stabilito che “Il sistema criminale che i colleghi del primo grado hanno letto dietro il modello Riace non esiste. L’inchiesta che ha smantellato quel modello di accoglienza divenuto noto in tutto il mondo, ma in Italia perseguito come criminale si è sbriciolata. 

Su questo vi lascio al commento della giornalista Tiziana Barillà che dalla redazione di Calabria che Cambia ci invia questo commento a caldo sull’accaduto. A te la parola Tiziana.

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Torniamo a parlare di clima perché oggi a Milano inizia il primo Congresso mondiale per la giustizia climatica. Ne parla su la Svolta Francesco carrubba che intervista Caterina Orsenigo, giornalista ambientale e una delle organizzatrici dell’evento. 

“Congresso mondiale per la giustizia climatica: idee, strategie, esperimenti su larga scala” è il titolo dell’evento, il primo nel suo genere, in programma a Milano dal 12 al 15 ottobre 2023. Ospitato dall’Università Statale e in parte dallo Spazio Pubblico Autogestito Leoncavallo, riunirà oltre 200 attiviste e attivisti provenienti dai principali movimenti di tutti i continenti.

L’obiettivo è definire un’agenda ed elaborare strategie trasversali contro il cosiddetto capitalismo fossile: “La minaccia posta alle società umane dalla crescita incontrollata non è mai stata così grande”. A conferma dell’emergenza che viviamo, il testo della “call” transnazionale cita esempi come la siccità record in Europa e l’alluvione in Pakistan.

La ricerca di soluzioni, al motto “Amore e Rivoluzione!”, si muoverà lungo i solchi segnati da alcune parole chiave: “Modalità alternative nella generazione di energia e nella produzione e nel consumo di cibo, accesso universale al reddito, alla salute e alla casa, all’informazione e alla conoscenza: la cultura di un nuovo ambiente e una nuova società per le/i molti che sono precari/e, non per i pochi ricchi del globo proiettati alla conquista dello spazio”.

La lista dei movimenti che sostengono il Congresso (Wccj), da Ultima Generazione a Fridays for Future Milano, è in continuo aggiornamento. L’evento si aprirà appunto oggi  con i primi incontri, proseguirà domani con i seminari aperti e sabato con le riunioni tematiche con i 200 delegati, per concludersi domenica con un’assemblea plenaria conclusiva. C’è anche un crowdfunding online per chi volesse sostenere l’organizzazione del congresso. L’articolo che vi ho segnalato, e che trovate sotto Fonti e articoli, contiene l’intervista interessante a una delle organizzatrici, ve ne consiglio la lettura.

Terminiamo anche oggi la puntata con la rubrica quotidiana, inaugurata ieri, “La giornata di Italia che Cambia”. Oggi, visto che vi ho fatto ascoltare pochi contributi audio, ce ne saranno ben due, quello canonico del nostro direttore Daniel Tarozzi che si trova in trasferta e ci racconterà cosa sta facendo, e quello del caporedattore Francesco Bevilacqua autore del pezzo di punta di domani. A voi la parola.

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