16 Apr 2024

Case green, ecco come funziona la nuova direttiva, nel dettaglio – #915

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La direttiva case green è stata approvata in via definitiva anche dal Consiglio europeo ed è pronta per entrare in vigore.Allora vediamo più nel dettaglio che cosa prevede nella sua versione definitiva. Parliamo anche di come l’industria estrattiva abbia depotenziato gli Esg, ovvero i criteri per la sostenibilità negli investimenti, e dei sommovimenti interni al continente africano. 

Nei prossimi giorni continueremo certamente a parlare a lungo della situazione fra Israele, Iran, Palestina, Usa, e tutto il resto. Oggi però, dato che ieri abbiamo dedicato praticamente tutta la puntata all’argomento, ci andiamo a recuperare un po’ di notizie interessanti di questo giorni.

A partire dall’approvazione definitiva della direttiva Case Green, avvenuta venerdì pomeriggio nel corso dell’incontro dell’ECOFIN, ovvero del Consiglio dei ministri europei dell’Economia e delle Finanze. Di Case green abbiamo già parlato in occasione del voto del Parlamento, ma adesso che l’approvazione è definitiva conviene farci un approfondimento un filino maggiore, prendendo spunto da un articolo del Post che rispolvera per l’occasione il suo marchio di fabbrica dello “spiegato bene” e fa un bel pezzo che si chiama appunto “La direttiva europea sulle case green spiegata bene”.

Partiamo dal dire che la direttiva non si chiama case green, che è un nomignolo giornalistico,mentre il nome originale che è Direttiva sulla prestazione energetica degli immobili (Energy Performance of Buildings Directive, nota anche con l’acronimo EPBD).

L’approvazione è stata abbastanza ampia: hanno votato a favore 20 dei 27 Stati membri, 5 astenuti e due contrari. Volete sapere chi sono i contrari? L’Ungheria e, sì, l’Italia. 

Quello sulle Case green è uno dei vari tasselli che rientra nel più ampio mosaico del Green deal, il piano per la transizione ecologica europeo. Un piano partito in maniera molto ambiziosa, che da qualche mese sta affrontando una serie di inciampi, revisioni e strani cambiamenti, come ci ha raccontato Dario Tamburrano nell’ultima puntata di INMR+, ma che regala ancora delle cose interessanti, di tanto in tanto.

Tipo questa. L’obiettivo di questa direttiva è di ridurre drasticamente il consumo energetico e le emissioni di gas serra di case e palazzi entro il 2035, per poi puntare alla realizzazione di immobili che non producano emissioni inquinanti entro il 2050. 

La direttiva divide gli edifici in due grandi categorie, quelli residenziali e quelli non residenziali (quindi commerciali, istituzionali, industriali e così via). Per quanto riguarda gli edifici residenziali, ogni Stato membro dell’Unione Europea dovrà impegnarsi a ridurre il consumo medio di energia degli edifici del 16 per cento entro il 2030, e di almeno il 20 per cento entro il 2035. Quindi, pezzetto importante, si parla di riduzione dei consumi!

Di questa riduzione, più della metà (il 55%) dovrà arrivare da un miglioramento delle case con le prestazioni energetiche peggiori, che sono il 43% degli edifici europei e a cui andranno dedicati gli interventi di ristrutturazione più rilevanti.

Per quanto riguarda invece gli edifici non residenziali, la direttiva prevede che entro il 2030 ne venga ristrutturato il 16 per cento, ed entro il 2033 il 26 per cento: questi interventi dovranno garantire che gli immobili ristrutturati rispettino nuove norme minime di prestazioni energetiche che andranno nel frattempo introdotte, e dunque in sostanza dovranno migliorare la categoria energetica con cui vengono classificati. Nel caso degli edifici non commerciali quindi non si prevede una riduzione complessiva dei consumi ma solo una migliore efficienza. Questo forse perché, immagino, gli edifici ad esempio commerciali o industriali dipendono nei consumi dal tipo di attività che vi si svolge all’interno e quindi è più difficile imporre delle norme rigide sui consumi. 

Queste norme sono quelle relative agli edifici già esistenti. Per quelli di nuova costruzione, invece, che siano residenziali o non residenziali, la direttiva prevede che debbano essere a “emissioni zero” a partire dal primo gennaio 2028 per gli edifici di proprietà pubblica, e dal primo gennaio 2030 per quelli privati. 

Ora, emissioni zero, così come impatto zero, è una locuzione equivoca, perché non esiste niente ad emissioni zero, e dovremmo smettere di usarlo. Quindi che si intende con edifici a emissioni zero? Banalmente degli edifici ad altissima prestazione energetica, che se sono ben utilizzato sono in gradi di consumare una quantità di energia molto bassa, e tutta assicurata da fonti rinnovabili, presenti nell’edificio stesso o nel quartiere o nel vicinato.

Questo è il succo. Poi vabbè, ci sono tutta una serie di esenzioni e di deroghe per gli edifici di proprietà delle Forze Armate, o che hanno funzione di luoghi di culto, per i fabbricati temporanei utilizzabili per non più di due anni, per per le seconde case utilizzate per meno di quattro mesi all’anno e così via.

Comunque, facciamo qualche altra precisazione. La direttiva europea, nella sua versione finale, non introduce obblighi per i singoli proprietari di case, né impone ai governi di adottare specifiche misure. In pratica fissa solo gli obiettivi, ma lascia a ciascuno Stato membro ampia libertà nel definire le proprie politiche pubbliche necessarie per raggiungere gli obiettivi. Il che può essere un bene e un male.

Questo aspetto è una delle modifiche più rilevanti introdotte dal Parlamento Europeo e dal Consiglio Europeo nel corso dell’esame della proposta della Commissione, che nella sua versione iniziale prevedeva che tutti gli edifici pubblici e non residenziali dovessero raggiungere la classe energetica F entro il primo gennaio 2027, e almeno la classe E entro il primo gennaio 2030, mentre gli edifici residenziali avrebbero dovuto ottenere almeno la certificazione di classe F entro il 2030 e di classe E entro il 2033. Adesso questi vincoli più specifici sono stati eliminati, in seguito alle pressioni soprattutto dei partiti della destra europea. 

Pressioni che nel caso del nostro governo hanno portato comunque a un risultato ritenuto insoddisfacente, al punto da essere uno degli unici due partiti a votare contro. I dubbi del governo sembrerebbero più che altro economici, oltre che legati alla campagna elettorale. Perché il punto è che il nostro paese ha una delle situazioni peggiori da questo punto di vista. 

Nel dicembre del 2021, il Corriere della Sera provò a capire quale fosse la situazione complessiva degli immobili in Italia, e concludendo che gli edifici in classe F e G (che sono quelle peggiori) sarebbero circa 7,5 milioni, ovvero circa il 60 per cento del totale.

Il nostro ministro dell’economia e delle finanze Giancarlo Giorgetti ha motivato il voto contrario chiedendo, sostanzialmente: «Chi paga?» per tutte queste ristrutturazioni?.

Ed è vero che non è chiarissimo come verranno coperte le spese che dovranno essere sostenute per realizzare gli interventi di ristrutturazione. Spese che per il nostro Paese saranno di alcune centinaia di miliardi, che potranno essere coperti almeno in parte da fondi europei. L’Ue aveva fatto una serie di stime sui finanziamenti, legate però alla prima versione della direttiva, che poi non è stata approvata. Adesso la situazione è diversa. 

Prima di passare ad altro, lasciatemi sottolineare due cose. La prima è l’importanza di aver introdotto un obiettivo di riduzione complessiva dei consumi, credo per la prima volta a livello europeo (ma correggetemi se sbaglio). Perché puntare solo sull’efficienza senza dei macro obiettivi di riduzione, come si è fatto spesso finora, non funziona per via di meccanismi economici noti come effetto rebound o paradosso di Jevons.

Il secondo aspetto è che bisognerà monitorare con attenzione come il nostro governo intenderà applicare la direttiva, perché sappiamo che poi gli StaTi per fare entrare in vigore le direttive europee le devono recepire con delle leggi nazionali, e avendo il nostro governo votato contro non è da escludersi qualche tentativo di boicottaggio o di recepimento zoppo. Quindi, ecco, occhi aperti.

Restiamo in tema emissioni e sostenibilità, ma ci spostiamo negli Usa, perché secondo quanto riportato da Drilled News, l’industria estrattiva avrebbe vinto la sua battaglia contro gli Esg, ovvero gli standard più utilizzati in ambito economico/finanziario per certificare un’attenzione a tematiche ambientali, sociali e di governance.

In pratica gli Esg (che è appunto un acronimo che sta per Environmental, social, Governance) sono standard utilizzati per poter definire sostenibili certi investimenti, per cui molte aziende o enti cercano di certificarsi e dimostrare di rispettare certi criteri, ad esempio essere sostenibili, inclusive, orizzontali per attirare maggiori investimenti. 

Solo che la scorsa settimana, la Security and Exchange Commission, che sarebbe l’ente federale statunitense preposto alla vigilanza delle borse valori, ha pubblicato le nuove linee guida sulla divulgazione dei rischi climatici, uno degli indicatori legati a Environmental Social and Governance (ESG). E dopo due anni di pressioni più o meno esplicite da parte delle industrie estrattive la SEC ha deciso di escludere le cosiddette emissioni di “Scope 3”.

Che vuol dire? E perché è importante? Allora, le emissioni di Scope 3 sono tutte le emissioni indirette di gas serra che si generano nella catena valore di un’organizzazione. Quindi riguardano tutta la catena di approvvigionamento di un’azienda, includendo tutte le emissioni a monte e a valle. 

Che vuol dire? Vuol dire ad esempio che se si considerano le emissioni a valle, l’industria che estrae i combustibili fossili non potrà mai dirsi carbon neutral, come è sensato che sia, perché il carbone, il gas o il petrolio sono estratti per essere bruciati e questa cosa è la principale causa della crisi climatica in corso. Ma se invece non si considerano le emissioni a valle, allora anche una compagnia petrolifera può dirsi carbon neutral, sostenibile: basta che utilizzi tecniche sostenibili di estrazione e raffinazione del petrolio o che compensi le emissioni di lavorazione. Già, perché poi il petrolio a bruciarlo è qualcun altro, e quindi quele emissioni che sono il grosso non rientrano nel computo.

Solo che, ovviamente, non ha senso. Le compagnie che estraggono petrolio lo estraggono perché questo venga bruciato, perciò non possono definirsi sostenibili in nessun modo. Non dovrebbero esistere, ma visto che esistono di certo non dovrebbero professarsi sostenibili e attrarre investimenti di chi vuole puntare sulla sostenibilità.

Nella loro prima versione, gli ESG non includevano le emissioni cosiddette di Scope 3 e per questo motivo molte delle industrie più inquinanti li supportavano. Poi, dopo anni in cui questo controsenso era statao sollevato, la SEC si era detta intenzionata a introdurle nella nuova versione delle sue lineee guida, che sono quelle di riferimento. 

Così le industrie estrattive hanno aumentato la loro pressione e la loro opera di lobby, per scongiurare l’ipotesi di dover rendicontare tutte le emissioni della loro filiera. La SEC ha iniziato a posticipare l’uscita di queste linee guida, di mese in mese, e infine con più di un anno di ritardo le ha pubblicate. E le emissioni di Scope 3 non ci sono.

Come commenta il pezzo, “Questo non solo è un fallimento nell’agire adeguatamente sul cambiamento climatico, ma ha anche deluso gli investitori che chiedevano strumenti che li informassero su quanto le varie aziende fossero preparate a gestire gli impatti climatici e le relative normative”. Che è un aspetto comunque interessante. Perché se è vero che le aziende inquinanti cercano ancora molto spesso di aggirare i controlli e le norme, è altrettanto vero che le persone iniziano ad essere abbastanza addestrate nel riconoscere la verità dalla fuffa e vogliono indicatori seri per misurare l’impatto dei propri investimenti.

Abbiamo parlato spesso, di recente, dei cambiamenti che stanno interessando il continente Africano. Ma ha senso continuare a farlo. A partire dal Niger, ad esempio. Raccontano diversi giornali che sabato a Niamey, la capitale del Niger, migliaia di persone hanno manifestato contro la presenza di militari statunitensi all’interno del paese e chiedendone il ritiro. 

Il Niger è un’ex colonia francese, governata dallo scorso luglio da una giunta militare che ha preso il potere con un colpo di stato: la giunta e i suoi sostenitori hanno manifestato fin da subito forti sentimenti anti-occidentali, soprattutto nei confronti della Francia e chiesto il ritiro dei contingenti di soldati stranieri impegnati nel territorio in missioni di contrasto al terrorismo.

La Francia ha effettivamente ritirato i propri soldati dal Niger alla fine dell’anno scorso, mentre restano su suolo nigerino almeno un migliaio di soldati statunitensi. Che si trovano a Agadez, città nel nord del paese e fanno parte di una missione avviata nel 2012 che la nuova giunta ha definito «unilateralmente imposta», chiedendone l’interruzione un paio di settimane fa. 

Al momento il governo degli Stati Uniti non ha commentato la richiesta, ma ha detto di aver contattato il Niger per «ottenere chiarimenti». La protesta di sabato però sembra essere un segnale abbastanza chiaro, nonché un ennesimo campanello che ci indica come gli equilibri nel continente africano stiano cambiando molto rapidamente e come sempre più spesso la presenza occidentale non sia più gradita. 

Nel frattempo, sempre a marzo, il Niger ha creato con il Mali e il Burkina Faso (altri due paesi in cui di recente ci sono stati colpi di stato) una forza congiunta di contrasto ai numerosi gruppi jihadisti attivi sul territorio.

Intanto, nella relativamente vicina Repubblica democratica del Congo stanno succedendo cose ancora più sorprendenti. Sappiamo, perché ne abbiamo parlato più volte qui, che il paese è scosso da una sanguinosa guerra civile. Ma scommetto che altre cose non le sapete. E lo scommette anche Daniel Tarozzi, direttore di ICC, che ci parla nel suo vocale di oggi, proprio di questo paese. E in realtà anche di altre cose, ma visto che siamo in tema, ho pensato di inserire qui il suo contributo.

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