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24 Giugno 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Cessate il fuoco Israele-Iran: l’annuncio di Trump, che succede adesso? – 24/6/2025

Il cessate il fuoco Israele-Iran, il caporalato a Latina, il dietrofront Ue sul greenwashing, le proteste a Panama e il calo della povertà in Giamaica .

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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Questo episodio é disponibile anche su Youtube

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Trascrizione episodio

Mentre registro questo episodio, la mattina presto di martedì 24 giugno, in Israele e in Iran regna una grande confusione su una domanda fondamentale: i due Paesi sono ancora in guerra? Ieri sera Trump ha annunciato gloriosamente sui social di aver raggiunto un accordo per il cessate il fuoco permanente dopo una guerra di 12 giorni fra Israele e Iran. Ma non si capisce ancora se questa cosa sarà effettivamente praticata.

Leggo sul Guardian: “Gli israeliani, che si erano addormentati con la notizia di un cessate il fuoco raggiunto, si sono svegliati con quattro allarmi missilistici consecutivi, correndo avanti e indietro verso i rifugi mentre un missile colpiva un edificio residenziale a Be’er Sheva, uccidendo tre persone, secondo quanto riferito dai vigili del fuoco e dai servizi di soccorso israeliani.

L’Iran ha vissuto una delle notti di bombardamenti israeliani più intensi finora, con un utente sui social di Teheran che ha scritto: «Il bombardamento stanotte a Teheran è stato estremamente intenso. Per un’ora intera le esplosioni non si sono fermate. Siamo un popolo completamente indifeso».

Non è chiaro se gli attacchi fossero semplicemente le difficoltà iniziali di un cessate il fuoco oppure se le ostilità dovessero continuare. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump aveva annunciato il cessate il fuoco poco dopo la mezzanotte di martedì, ma né funzionari israeliani né iraniani avevano confermato di averlo accettato.

Anche la tempistica del cessate il fuoco era vaga. Secondo l’annuncio di Trump sui social, l’Iran avrebbe dovuto smettere di sparare martedì mattina, sei ore dopo Israele avrebbe dovuto fermare i bombardamenti sull’Iran e 24 ore più tardi la guerra sarebbe stata ufficialmente dichiarata conclusa.

Il ministro degli Esteri iraniano Abbas Aragchi ha dichiarato in un post su X che «non c’è alcun accordo su un cessate il fuoco», ma ha aggiunto che se Israele avesse smesso di bombardare entro le 4 del mattino, ora di Teheran, anche l’Iran avrebbe interrotto il fuoco. Più tardi, la TV di Stato iraniana ha riferito che un cessate il fuoco stava entrando in vigore, definendolo come «imposto al nemico».

Ma martedì mattina, sia i bombardamenti iraniani che quelli israeliani proseguono, senza alcun segno concreto di cessate il fuoco sul terreno. Alle 6:30 La Press TV iraniana ha riferito che un cessate il fuoco è iniziato dopo quattro ondate di attacchi iraniani contro i territori occupati da Israele, riporta Reuters. Ora resta da capire se anche Israele lo accetterà o lo ha accettato.

Al momento restano aperte molte domande. Innanzitutto se questa cosa sarà appunto effettiva e se durerà. E poi, alla luce di questo, che senso ha avuto tutta l’operazione. E che senso ha avuto anche l’attacco degli Usa. Che Trump abbia voluto scoprire il bluff di Netanyahu bombardando davvero i siti nucleari per poi pretendere un cessate il fuoco? Ne riparliamo.

“La mattina del 12 giugno 2025 alcuni ispettori del lavoro sono entrati in un terreno agricolo nella campagna di Sermoneta, in provincia di Latina, dove 10 indiani provenienti dal Punjab stavano preparando la raccolta delle zucchine. Solo uno di loro aveva un contratto, ma con un’azienda agricola di Terracina, a 50 chilometri di distanza. Gli altri erano tutti in nero. Il proprietario del terreno si è giustificato dicendo che erano stati loro a presentarsi da lui chiedendogli di lavorare e che quello era il loro primo giorno di lavoro, e per questo non aveva ancora fatto in tempo a contrattualizzarli. 

Gli ispettori del lavoro sono andati avanti con il verbale e hanno chiamato la polizia per gli accertamenti sulla regolarità dei permessi di soggiorno. Nel frattempo, un lavoratore ha chiesto aiuto con un messaggio su WhatsApp a Laura Hardeep Kaur, che è la segretaria del sindacato del settore agricolo FLAI CGIL di Latina, è nata in Italia da genitori provenienti dal Punjab e parla la loro lingua”. E che da anni si batte contro il caporalato e lo sfruttamento dei braccianti. 

Siamo sul Post e l’articolo di cui vi ho letto l’inizio si chiama “Un anno dopo la morte di Satnam Singh, a Latina è tornato tutto come prima”. Il riferimento è a quel tremendo fatto di cronaca risalente appunto a circa un anno fa, quando Satnam Singh, un giovane bracciante indiano irregolare, era morto un anno fa dopo essere stato abbandonato dal datore di lavoro con un braccio amputato. La sua morte aveva suscitato indignazione e aveva portato alla firma di un protocollo d’intesa tra istituzioni e forze dell’ordine per contrastare il caporalato.

Solo che la situazione da allora non è migliorata, anzi. L’articolo del Post la racconta attraverso gli occhi e il lavoro della giovane segretaria del sindacato, che racconta come le arrivino spessissimo richieste di intervento come quella descritta inizialmente. In quel caso, grazie al suo intervento, i lavoratori sono stati rilasciati, evitando il trasferimento al CPR di Brindisi, e ora potrebbero accedere alla procedura speciale per ottenere un permesso di soggiorno come vittime di sfruttamento. Mentre al titolare dell’azienda è stata inflitta una multa da 50mila euro.

I controlli ci sono, ma è complicato. Leggo ancora dall’articolo: “Nell’Agro pontino, l’ampia zona agricola a sudest di Roma, ci sono 6.500 imprese agricole di diverse dimensioni, e nonostante la prefettura abbia istituito una “task force” per i controlli, con ispettori del lavoro e forze dell’ordine, è difficile controllarle tutte e verificare che anche i contratti, quando ci sono, non siano regolari solo sulla carta. I sindacalisti lo definiscono «lavoro grigio». Il sociologo Marco Omizzolo, che ha fatto moltissime ricerche sugli indiani del Punjab che lavorano nel Lazio, sostiene che i controlli dopo la morte di Satnam Singh abbiano impoverito i braccianti mandati a casa dalle aziende. Quando il lavoro è ripreso – perché dopo un po’ i controlli sono diminuiti – hanno accettato di lavorare a condizioni ancora peggiori”.

“Alla CGIL spiegano che gli accordi tra aziende e caporali vengono fatti in base al cosiddetto salario “di piazza”, cioè a una sorta di borsa informale che cambia di zona in zona e prevede in ogni caso un pagamento inferiore a quello previsto dai contratti del settore. In questo momento in media varia tra i 4 e i 5 euro all’ora, a seconda dell’area e della capacità di contrattazione del caporale”.

E in più, come spiega Omizzolo, «Per sfuggire ai controlli, molte aziende più grandi e strutturate hanno ideato con l’aiuto di avvocati e commercialisti un sistema più sofisticato di sfruttamento: prevede un contratto di lavoro per pochi giorni regolarmente retribuito, ma in realtà i lavoratori sono impiegati a tempo pieno».

Come al solito quando i problemi sono strutturali, non si risolvono aumentando i controlli. Abbiamo una filiera alimentare strozzata e dominata dai giganti della GDO, che impongono prezzi bassissimi a chi il cibo lo produce, tenendosi una grossa fetta del prezzo al dettaglio. Questo non giustifica ovviamente chi sfrutta, ma rende lo sfruttamente un elemento endemico, strutturale. 

Ovviamente ci sono i modi per evitare tutto ciò: da un lato dovremmo iniziare a pretendere una riforma strutturale della filiera alimentare, senza la quale non possiamo sperare di migliorare granché. Una riforma che favorisca il cibo locale, a km0 e un rapporto più diretto con i produttori. Dall’altro, nel frattempo, possiamo iniziare noi a scegliere chi già oggi offre queste opportunità, che siano Gas o altri sistemi simili. O persino esperienze tipo Sos Rosarno che con il suo progetto di scontrino trasparente mostrava come fare in modo di evitare lo sfruttamento. 

C’era una volta il Green deal. Che c’è ancora, in realtà, ma sta affrontando un doloroso percorso di depotenziamento. Chi ha già ascoltato la puntata di INMR+ di sabato con ospite l’europarlamentare Dario Tamburrano saprà che questo processo è in corso da tempo, ma proprio nel weekend è arrivato un altro duro colpo.

La Commissione europea infatti ha deciso di ritirare la proposta di direttiva sui cosiddetti Green Claims, cioè le dichiarazioni ambientali che le aziende mettono sui propri prodotti per promuoversi come “green”. Era una norma attesa da tempo e che avrebbe dovuto rendere obbligatoria la verifica delle affermazioni ecologiche da parte di enti terzi, basate su prove scientifiche riconosciute. Ne avevamo anche parlato. Era una cosa interessantissima, un tentativo di mettere ordine e porre un freno al dilagare del greenwashing. Se la direttiva fosse stata approvata, le aziende per poter scrivere “eco”, “bio” o “green” sui propri prodotti avrebbero dovuto giustificare dati alla mano quelle dichiarazioni. E quindi le persone avrebbero potuto fare scelte informate.

E invece la norma è stata ritirata dalla Commissione, una roba stranissima, che non avviene quasi mai. Perdipiù a pochi giorni dal trilogo finale – ovvero quel processo di negoziazione tra Parlamento, Consiglio e Commissione che avrebbe dovuto chiudere l’iter dopo due anni di discussioni. A pesare sulla decisione, racconta il FQ,  sono state le pressioni arrivate soprattutto dal Partito popolare europeo, dai Conservatori e da altri gruppi politici di destra, che hanno criticato la direttiva definendola troppo complicata, costosa e dannosa per la competitività delle imprese.

Il portavoce della Commissione non ha dato spiegazioni precise sul perché del dietrofront, limitandosi a dire che l’esecutivo Ue ha il diritto di ritirare le proprie proposte. Alcuni parlamentari hanno parlato di proteggere la competitività delle imprese euripee. Come scrive Virginia della Sala sul Fatto, “Formalmente le motivazioni per cui da anni si provava a indebolire la direttiva Ue contro il greenwashing delle aziende erano la competitività, la tutela delle piccole e medie imprese, il progresso. Dietro le quinte, invece, giocavano un ruolo fondamentale le pressioni dei gruppi d’interesse industriali”.

Intanto monta la protesta dei Verdi e di chi denuncia come questo sia l’ennesimo passo indietro dell’Europa sulla tutela dell’ambiente e dei consumatori. Veramente un’occasione persa, mi viene da dire. 

Abbiamo aperto questa rassegna parlando di latina. Ecco, questa notizia arriva dall’altra parte del mondo, ma ha a che fare con gli stessi meccanismi. Ci sono delle grosse proteste in corso a Panama. Circa un anno e mezzo fa avevamo raccontato delle proteste ambientaliste contro una miniera scoppiate nel paese. Poi Panama è stata di nuovo sui giornali per via delle questioni geopolitiche legate al suo canale e agli appetiti di Cina e Usa. Oggi aa Panama si protesta, e queste proteste sono legate a tutto questo. 

Da mesi, racconta L’Indipendente, migliaia di persone stanno scendendo in piazza per protestare contro due decisioni del governo che stanno facendo infuriare la popolazione. Da un lato c’è una riforma del sistema pensionistico che rischia di ridurre gli assegni per i lavoratori; dall’altro, proprio l’accordo firmato con gli Stati Uniti che permette alle forze di sicurezza americane di intervenire nel Paese, ufficialmente per “attività umanitarie” ma con margini piuttosto ampi.

Le proteste erano partite a marzo dai lavoratori delle piantagioni di banane, soprattutto nella provincia di Bocas del Toro, un’area già segnata da forti disuguaglianze e sfruttamento. Con il tempo però lo sciopero si è allargato: prima altre categorie di lavoratori, poi cittadini comuni, fino a trasformarsi in un vero e proprio movimento popolare.

Nell’ultima settimana la tensione è esplosa: a Changuinola, capoluogo di Bocas del Toro, si sono registrati saccheggi, incendi (è stato dato alle fiamme anche uno stadio di baseball), attacchi all’aeroporto e ai magazzini della multinazionale Chiquita, simbolo di un modello economico che in molti vedono come parte del problema.

Il governo, guidato da José Raúl Mulino, ha risposto con lo stato di emergenza: voli sospesi, divieto di assembramenti, limitazioni alla libertà di movimento e la possibilità per la polizia di fare arresti senza mandato. Sono già più di 50 le persone arrestate e oltre 30 i feriti negli scontri con le forze dell’ordine.

Dietro le proteste non c’è solo la rabbia per le pensioni o per l’accordo con Washington. C’è il malcontento di una popolazione afflitta da una grande disparità economica e sociale che adesso si sente persin esclusa dalle decisioni che riguardano il proprio futuro e la propria terra, e che vede nella presenza USA un ritorno a una storia di ingerenze e dipendenze che Panama conosce fin troppo bene. 

C’è una buona notizia che arriva dalla Giamaica, ne parla L’Indipendente: goi ultimi dati disponibili mostrano che nel 2023 il paese ha registrato il tasso di povertà più basso dal 1989, cioè da quando hanno cominciato a misurarlo. Nel 2023 la povertà si è fermata all’8,2%, praticamente la metà rispetto al 2021, quando era al 16,7%. Un calo netto, che riguarda sia le città che le campagne: a Kingston, la capitale, il tasso di povertà è sceso dal 10 al 3%, e nelle aree rurali dal 22 all’11%.

Il primo ministro Andrew Holness ha commentato dicendo che questo risultato è merito delle politiche messe in campo dopo il Covid: principalmente parliamo di investimenti sull’istruzione, la formazione, la creazione di posti di lavoro.

Ora, al solito bisogna usare cautela. Nel senso che le stesse istituzioni giamaicane dicono, nel diffondere i dati, i dati sulla povertà non sono proprio omogenei negli anni, perché sono cambiati i metodi di rilevazione. E i dati del 2024 devono ancora uscire. Quindi ecco, tutto da confermare, ma anche se fosse di misura minore il trend positivo sembra esserci.

E questa cosa è confermata da un altro dato interessante, che spesso va a braccetto con la diminuzione della povertà. Ovvero che, oltre alla povertà, anche la violenza sembra in calo: a marzo, la Giamaica ha registrato il numero più basso di omicidi degli ultimi 25 anni. 

Considerate che la Giamaica è un paese che storicamente ha dovuto fare i conti con alti livelli sia di povertà che di criminalità. Per decenni una larga fetta della popolazione ha vissuto in condizioni difficili, soprattutto nelle aree rurali e nei quartieri più poveri delle città, come Kingston. Una povertà collegata legata alla mancanza di opportunità economiche, alle disuguaglianze sociali e a un’economia fragile, molto dipendente da turismo, esportazioni agricole e rimesse degli emigrati, ovvero i soldi che persone emigrate inviano dall’estero. E tutto questo si è intrecciato con un tasso di criminalità molto alto, in particolare la violenza legata alle gang e al traffico di droga, che ha reso il paese uno dei più violenti al mondo per numero di omicidi pro capite. Ora entrambe queste tendenze sembrano essersi invertite.

Insomma, con tutta una serie di problemi che rimangono, tipo l’eccessiva dipendenza dell’economia dell’isola dai mercati esterni, la Giamaica sembra un esempio di politiche sociali che funzionano.

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