Incidente Air India: cosa sappiamo – 13/6/2025
Circa 300 morti in un disastro aereo in India; attivisti pro-Gaza vengono fermati o espulsi, aumentano i costi pubblicitari per le aziende israeliane e i risultati delle elezioni in Burundi.

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Fonti
#incidente aereo
Corriere della Sera – Air India, la posizione alla partenza e il rientro (anticipato) dei flap: cosa non torna della dinamica
#Global March to Gaza
Italia che Cambia – Global March to Gaza, scontri in aeroporto con la polizia al Cairo, c’è un ferito. Tutte le novità
#Israele
Sheer post – As Israel Becomes a Global Pariah, Leaked Meta Data Reveals Soaring Costs for Its Brands
#Sardegna
Sardegna che Cambia – Olbia–Tel Aviv, il nuovo volo tra sicurezza e polemiche – INMR Sardegna #82
#Burundi
Italia che Cambia – Ciak, si tratta? Il cinema e il governo provano a dialogare – 9/6/2025
il Post – Il partito che governa da vent’anni in Burundi ha vinto senza sorprese tutti i seggi alle elezioni dello scorso 5 giugno
Trascrizione puntata
La giornata di ieri, a livello di media, è stata caratterizzata principalmente dal grave disastro aereo che ha coinvolto un velivolo della compagnia Air India. L’aereo di linea, un boeing 787 Dreamliner, è precipitato pochi minuti dopo il decollo dall’aeroporto di Ahmedabad, in India, provocando la morte di almeno 235 persone, in buona parte cittadini indiani ma anche britannici. L’aereo infatti era diretto a Londra, aeroporto di Gatwick, dove sarebbe dovuto atterrare intorno alle 19:25 ora italiana.
Ad aggravare ulteriormente l’incidente c’è il fatto che l’aereo è precipitato sopra la mensa di un ospedale universitario nelle vicinanze dell’aeroporto, causando la morte anche di cinque studenti che si trovavano all’interno dell’edificio.
Una delle storie più siggestive di questo incidente è quella miracolosa dell’unicp èasseggero sopravvissuto, tra le 236 persone a bordo: si tratta di Vishwash Kumar Ramesh, un uomo di circa quarant’anni residente a Londra, che si trovava in India per visitare la famiglia. Ha raccontato di aver sentito un forte rumore circa 30 secondi dopo il decollo, seguito dallo schianto. È svenuto e, al risveglio, si è trascinato fuori dai rottami prima di essere soccorso. Ha riportato ferite al petto, agli occhi e ai piedi, ma è fuori pericolo.
Ora, sulle origini dell’incidente in realtà ancora si sa piuttosto poco. Leonard Berberi sul Corriere prova a mettere in fila tutte le informazioni che sappiamo, e come vedrete c’entra un po’ di tutto, persino la geopolitica.
Leggo: “L’aereo, con 242 persone a bordo, si è schiantato tra le case un minuto dopo essersi sollevato da terra. Tutto parte con le indicazioni fornite dal sito di tracciamento Flightradar24 che, però, in un secondo momento corregge le informazioni e spiega che l’aereo si è preso tutta la striscia d’asfalto.
I video girati — uno, in particolare — mostrano il Boeing fare fatica a prendere ulteriore quota. Anzi: i piloti sembrano avere difficoltà addirittura a tenerlo a un’altezza di «sicurezza» dalle abitazioni a terra, tanto che dopo alcuni secondi il jet precipita. Come mai? E qui spunta la domanda sulla posizione di partenza. La pista 23 dell’aeroporto di Ahmedabad, quella dalla quale è partito il Boeing, è lunga 3.505 metri.
Secondo i dati raccolti dai siti di monitoraggio dei movimenti aerei, il volo Air India 171 — diretto a Londra Gatwick — entra più o meno a metà di quella pista e da lì avvia la rincorsa. Si tratta di circa 1.900 di asfalto da percorrere per raggiungere la velocità sufficiente a decollare. Ma quei 1.900 metri sono stati sufficienti? Su questo alcuni piloti, contattati dal Corriere, esprimono qualche dubbio, e infatti il velivolo si sarebbe preso lo spazio necessario.
«Un decollo con poca pista di solito è possibile se ci sono le performance, cioè se si sono fatti i calcoli rispetto alla posizione, se si è studiata la spinta dei motori per decollare da quel punto», spiega un comandante. «Certo, un aereo che dall’India deve volare fino a Londra pesa almeno 220 tonnellate e se fosse partito a metà tracciato risulterebbe una corsa di decollo corta. È molto strano decollare da quel punto lì e in quelle condizioni».
Un altro comandante ricorda che le tensioni India-Pakistan costringono i vettori indiani ad aggirare il Pakistan, allungando così i tempi di percorrenza ma anche aumentando il cherosene da imbarcare per poter sostenere l’intero tragitto. Altri voli AI171 Ahmedabad-Londra hanno eseguito il cosiddetto «backtrack», si sono portati cioè un po’ più indietro rispetto a metà pista per poter avere qualche metro in più.
Sotto la lente c’è anche la question dei flap, la parte mobile delle ali che aiuta la portanza dell’aereo. Le immagini li mostrano in posizione giudicata non adeguata per la fase di decollo: sono infatti già rientrati pur avendo il carrello ancora abbassato e soprattutto così poco dopo la partenza: di solito i flap dovrebbero essere fatti rientrare una decina di minuti dopo, non sessanta secondi, il decollo mentre il carrello è la prima cosa che viene riportato su, dopo una decina di secondi.
Insomma potrebbe esserci tanto un guasto tecnico, quanto un incidente imprevedibile (altri giornali come Repubblica parlano di bird strike come possibile causa, ovvero l’impatto con uno o più uccelli che possono danneggiare i motori) o ancora un errore umano.
La tragedia comunque, racconta il Post, riaccende i riflettori sulla sicurezza dei velivoli Boeing. Negli ultimi anni l’azienda è stata coinvolta in diversi incidenti, in particolare con il modello 737. Il velivolo coinvolto nello schianto di ieri era però un 787 Dreamliner, un modello più recente, diffuso e fino ad ora considerato sicuro: ce ne sono oltre mille in servizio in tutto il mondo, e questo è il primo incidente grave che lo riguarda.
Fatto sta che è uno degli incidenti aerei più gravi degli ultimi anni, con ancora tanti aspetti da chiarire.
Ieri era il giorno dell’inizio della Marcia globale verso Gaza, la grande iniziativa della società civile con cui oltre 5000 persone provenienti da circa 50 paesi del mondo dovevano raggiungere il Cairo e da lì intraprendere un viaggio, prima in pullman e poi a piedi che avrebbe dovuto condurli fino a Rafah, cittadina egiziana che è l’unico punto di ingresso verso la striscia di Gaza che non sia su suolo israeliano.
L’obiettivo della marcia è quello di sbloccare gli aiuti umanitari, fermi ormai da molte settimane per via del blocco imposto da Israele. Le cose però si sono complicate fin da subito. Come abbiamo raccontato ieri su ICC in un dettagliato articolo scritto dalla nostra Elisa Cutuli, che era in contatto diretto sia con la referente italiana della marcia sia con alcune persone che avevano deciso di partecipare, fin dalla serata di mercoledì sono iniziate delle operazioni da parte delle autorità egiziane per bloccare la marcia. Probabilmente su richiesta del governo israeliano.
La mattina di ieri, attorno alle 8, sul canale ufficiale della Global march to Gaza Italia, la referente italiana Antonietta Chiodo ha diffuso un messaggio in cui denunciava la situazione. Velo faccio vedere / ascoltare.
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Fra l’altro c’è un passaggio molto inquietante in tutta questa vicenda. Se avete ascoltato con attenzione il messaggio di Antonietta Chiodo lei dice chiaramente che stanno rimpatriando forzatamente non tutte le persone ma solo i cittadini degli stati che sostengono israele in modo da non creare incidenti diplomatici. Questo perché, probabilmente, ma è una cosa abbastanza esplicita, prevedono di usare la violenza – qualsiasi arma – se qualcuno arriva vicino a Rafah.
Un partecipante, che peraltro è anche un nostro abbonato, Roberto Solazzi, ci ha aggiornato via via sulla situazione e mentre era in partenza per il Cairo ci ha mandato un messaggio, lo ha inviato ad Elisa Cutuli, di cui vi faccio sentire un estratto.
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Nel pomeriggio poi ci sono stati scontri all’aeroporto del Cairo e un ferito. Circa 200 persone sono state arrestate. Alcuni partecipanti italiani hanno scelto di non partecipare, hanno rinunciato. Poi verso sera la situazione è leggermente migliorata. Vi faccio ascoltare un ultimo contributo di un’altra partecipante, che aveva rinunciato a partire e poi ha cambiato idea.
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Insomma, questa è la situazione al momento, noi continueremo ad aggiornare anche nel fine settimana, attraverso le nostre news, quindi seguite Italia che Cambia, visitate il nostro sito e iscrivetevi ai nostri canali social, in particolare al canale Telegram, se volete ricevere aggiornamento costanti su quello che succede.
Secondo dei dati interni trapelati da whistleblower aziendali e pubblicati dal sito investigativo Drop Site News, le aziende israeliane stanno affrontando un crollo senza precedenti nell’engagement pubblicitario globale, in parallelo all’isolamento internazionale crescente dello Stato di Israele, legato alla guerra in corso a Gaza.
Il dato più evidente riguarda il CPC, ovvero il costo per click, uno degli indicatori principali per valutare l’efficacia e l’efficienza delle campagne pubblicitarie online. Tra il 2023 e il 2025, il CPC per le aziende israeliane è aumentato di oltre il 155%, un dato fuori scala rispetto alle tendenze globali. Questo significa che oggi un’azienda israeliana paga più del doppio per ottenere un click rispetto a due anni fa – e ottiene in cambio meno della metà delle interazioni di allora.
Israele ha investito quasi 1,9 miliardi di dollari in pubblicità su Meta tra il 2023 e il 2024, ma senza grandi risultati. In alcuni mercati, il rincaro è ancora più marcato: +163% nel Regno Unito, +144% in Germania, +106% in Canada. Negli Stati Uniti il CPC per gli inserzionisti israeliani è salito del 93%, a fronte di un aumento irrisorio del 2,8% per le aziende non israeliane.
Tutto ciò si inserisce in un contesto più ampio di perdita di reputazione globale. Secondo il Global Soft Power Index del 2025, Israele è scesa al 121° posto, con un crollo di ben 42 posizioni. Un sondaggio Pew rivela che il 53% degli statunitensi ha oggi un’opinione sfavorevole di Israele (contro il 42% del 2022), con punte altissime tra i giovani e persino tra gli elettori repubblicani under 50.
Nel frattempo, Israele continua a investire pesantemente nella cosiddetta “diplomazia pubblica”, o hasbara: solo nel 2025 ha stanziato altri 150 milioni di dollari. Ma, nonostante l’algoritmo di Meta sia stato spesso accusato di penalizzare i contenuti filo-palestinesi, questi sforzi sembrano sempre meno efficaci.
Molti brand legati a Israele, secondo l’inchiesta, stanno cercando di nascondere la propria origine israeliana per sfuggire ai boicottaggi: loghi modificati, sedi “spostate”, legami cancellati dai siti aziendali. Ma la strategia non sta funzionando.
E intanto la pressione internazionale aumenta: l’UE e il Regno Unito hanno congelato i negoziati commerciali con Israele, mentre voci sempre più insistenti parlano di un piano di annessione di Gaza e di trasferimento forzato della popolazione palestinese.
A proposito di Israele ascoltatevi l’anteprima della rassegna sarda di oggi.
Audio / video disponibile nel podcast
Ricorderete forse, se non vi perdete nemmeno una puntata di INMR, che qualche giorno fa si è votato in Burundi. Ecco, ora sappiamo i risultati ufficiali e il partito che da vent’anni governa il Burundi ha vinto tutti i cento seggi che andavano assegnati con le elezioni parlamentari dello scorso 5 giugno: non è una sorpresa, dato che da tempo ha represso il dissenso e di fatto reso inoffensiva l’opposizione.
Il Consiglio nazionale per la difesa della democrazia – Forze per la difesa della democrazia (CNDD-FDD) ha ottenuto più del 96 per cento dei voti, e nessun partito di opposizione ha superato la soglia del 2 per cento per ottenere rappresentanza in parlamento: Uprona è arrivato secondo con poco più dell’1 per cento, mentre il Consiglio nazionale della Libertà, che è il principale partito di opposizione, si è fermato allo 0,6 per cento.
Il capo della commissione elettorale del paese ha detto che durante le elezioni ci sono state «alcune irregolarità di poco conto»: Uprona invece ha accusato il partito al governo di averle truccate. Per Human Rights Watch, una delle più importanti ong che si occupano di diritti umani, il voto si è tenuto in un contesto di «libertà di parola e di azione politica gravemente limitate».
Il CNDD-FDD è uno dei gruppi che nella guerra civile combattuta tra il 1993 e il 2005 in Burundi combatterono per gli hutu, l’etnia di cui fa parte l’85 per cento della popolazione nazionale, e dopo essersi costituito in partito cominciò subito a dominare la politica del paese.
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