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6 Giugno 2025
Podcast / Io non mi rassegno

Referendum 8-9 giugno: cosa votiamo davvero? – 6/6/2025

Referendum, riforma di medicina, elezioni in Corea del Sud, giudici eletti in Messico e il riconoscimento storico di una figlia di due mamme in Sardegna.

Autore: Andrea Degl'Innocenti
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Questo episodio é disponibile anche su Youtube

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Allora, ci siamo. Domenica e lunedì si vota per i referendum sul lavoro e la cittadinanza. Inoltre in alcuni comuni si vota anche per il secondo turno delle amministrative, insomma per eleggere sindaci e giunte comunali in 13 comuni, fra cui Taranto e Matera.

Comunque, partiamo dai referendum. Inizio dicendovi che se volete sapere tutto sui 5 quesiti, in maniera molto dettagliata, su csa comporta votare o non votare, su cosa cambia se vince il Sì, c’è una puntata di INMR+ che fa per voi.

INMR+ è il nostro podcast per abbonati/e a ICC dedicato all’approfondimento di temi di attualità. Lì trovate un’analisi molto dettagliata, alcune opinioni a confronto, i pro e i contro di votare Sì e no e così via. Per ascoltarlo dovete essere abbonati o abbonarvi. Se lo fate comunque fate una bella cosa perché non solo avete accesso a tutti i contenuti esclusivi e a una relazione diretta con noi della redazione, ma contribuite anche a supportare tutto il nostro lavoro e la nostra informazione indipendente. 

Detto ciò, visto che il tema è importante e centrale, io comunque cerco di darvi anche qui le informazioni minime per poter scegliere con consapevolezza. Quindi, vi riassumo i 5 quesiti e poi facciamo qualche considerazione. 

Partiamo dal primo questio, scheda verde: oggi se lavori in un’azienda con più di 15 dipendenti e vieni licenziato ingiustamente, nella maggior parte dei casi non torni al lavoro: ti danno dei soldi e basta. Questo perché il Jobs Act ha tolto il reintegro, tranne nei casi più gravi (tipo licenziamento per discriminazione). Se vince il Sì si torna a una situazione in cui il reintegro è più facile, come ai tempi della legge Fornero. Quindi, in più casi, il giudice potrà dire all’azienda: “riprendi il lavoratore”.

Poi, secondo quesito, scheda arancione. Oggi se vieni licenziato ingiustamente in un’azienda con meno di 16 dipendenti, al massimo puoi ricevere 6 mensilità come risarcimento. Stop. Se vince il Sì: quel limite dei 6 mesi sparisce. Sarà il giudice a decidere quanto ti spetta, in base alla tua storia lavorativa, all’azienda, ai tuoi carichi familiari e così via.

Poi c’è il terzo quesito, scheda grigia. Adesso un’azienda può assumerti con un contratto a tempo determinato (fino a 1 anno) senza spiegare perché. Nessuna motivazione. Se vince il Sì: l’azienda dovrà sempre dire perché ti assume a termine. Serve una “causale”, cioè una motivazione valida, altrimenti niente contratto. È un modo per limitare i contratti precari.

Arriviamo così al quarto quesito, scheda viola, che riguarda gli infortuni sul lavoro e la responsabilità delle aziende. Oggi se ti fai male lavorando per una ditta che ha preso un lavoro in appalto, l’azienda che ha dato l’appalto (il committente) è responsabile solo in alcuni casi specifici. Se vince il Sì: il committente sarà ritenuto sempre responsabile insieme alla ditta che ha fatto l’appalto. Serve a far aumentare la vigilanza sulla sicurezza.

Infine il quinto quesito, quello sulla cittadinanza. Oggi per chiedere la cittadinanza italiana devi vivere qui da almeno 10 anni. Se vince il Sì: basteranno 5 anni, il che allinea il nostro paese con la media europea.

Ecco, questo è il super riassunto. Venendo alle riflessioni, c’è da distinguere secondo me fra i 4 quesiti sul lavoro e quello sulla cittadinanza. I referendum sul lavoro infatti non sono risolutivi. Il tema del lavoro è un tema super complesso, che necessita sicuramente di una riforma ragionata. Anzi, vi dirò, visto i ritmi con cui il lavoro cambierà nei prossimi anni con cui sta già cambiando, per via di tante variabili e su tutte l’avvento dell’IA, dovremmo immaginarci delle riforme flessibili, pensate per essere a loro volta riadattate e cambiate nel prossimo futuro.

Insomma, di certo non possiamo sperare che 4 quesiti sul lavoro bastino a sistemare le cose. Anzi, paradossalmente nell’immediato potrebbero persino complicarle di più, come è emerso dalla chiacchierata con Fabrizio Cotza, fondatore degli imprenditori sovversivi, nella puntata di INMR+. La stessa distinzione fra aziende com più o meno di 15 dipendenti è anacronistica in un’epoca in cui la distinzione grossa è fra aziende medio-piccole e grandi multinazionali. Così come è anacronistico il fatto di mettere il focus solo sui contratti a tempo indeterminato in un’epoca in cui questi rappresentano poco più del 10% del totale. 

Il punto allora qual è? Il punto è che votare può essere comunque un segnale politico di una volontà forte di riforma del sistema del lavoro in una certa direzione, più tutelante dei diritti di chi lavora. Quindi su questo fronte, il senso di votare è più quello di mandare un segnale, che quello di risolvere la situazione. Consapevoli però che la classe politica che abbiamo è quella che è e che i segnali spesso non vengono colti, che questo può essere frustrante e così via. Ecco: questi sono gli elementi su cui ragionare, poi ognuno può trarre le sue conclusioni.

Il referendum sulla cittadinanza invece è più semplice. Nel senso che è diciamo autorisolutivo. Poi certamente ci sono altre questioni aperte sulla cittadinanza, però sul tema delle tempistiche, se passa, cambia automaticamente la legge. Su questo vi consiglio di leggere un articolo che abbiamo pubblicato su ICC a cura del Comitato cittadino per le voci migranti. Che mette il focus su un aspetto poco indagato, ovvero il deficit democratico da cui soffre la nostra società. Si parla di deficit democratico quando una società esclude od ostacola la partecipazione politico-elettorale di una parte numericamente e socialmente significativa dei cittadini. In questo caso parliamo di cittadini/e stranieri residenti in Italia senza nessun precedente penale e con un reddito dimostrabile, che quindi pagano le tasse in Italia e che non hanno voce in capitolo a livello democratico, non votano.

Ovviamente è una voce un po’ di parte, quella dell’articolo, ma che spiega bene il meccanismo, con cui si può essere o meno d’accordo.

Va bene, io mi fermo qui, ne riparliamo martedì, risultati alla mano. 

Dopo mesi di caos politico e una presidenza finita con un tentato colpo di stato, la Corea del Sud ha un nuovo presidente: si chiama Lee Jae-myung (Li Ge Miong), ha 61 anni, ed è il leader dell’opposizione progressista che ha appena sconfitto i conservatori del Partito del Potere Popolare. Ma per capire come si è arrivati fin qui, tocca fare un passo indietro.

Lo scorso dicembre il presidente uscente, Yoon Suk-yeol (Yun Sok Yo), aveva tentato di imporre la legge marziale per gestire una crisi politica e sociale che lui stesso aveva alimentato. Il gesto aveva portato al suo impeachment, all’apertura di profonde spaccature nel suo partito e a un senso generale di sfiducia nella leadership conservatrice. Un’onda lunga che ha travolto il suo successore designato, Kim Moon-soo, battuto alle urne da Lee con un margine netto. L’elezione è avvenuta in condizioni straordinarie, tanto che l’insediamento di Lee è stato anticipato senza i consueti due mesi di transizione.

Normalmente infatti, in Corea del Sud, tra l’elezione di un nuovo presidente e il suo effettivo insediamento passano circa due mesi, per permettere una transizione ordinata del potere: preparazione dell’ufficio, nomine del nuovo staff, passaggio di consegne, ecc.

In questo caso però – a causa del clima politico eccezionale, con un presidente rimosso per impeachment e una situazione d’instabilità istituzionale – si è deciso di saltare quei due mesi. Lee Jae-myung si è insediato praticamente subito dopo la convalida dei risultati, per garantire continuità al governo del paese in un momento delicato.

Lee Jae-myung non è certo un volto nuovo: è un politico esperto e una figura ritenuta piuttosto polarizzante, ed era già arrivato vicino alla presidenza nel 2022, perdendo per lo 0,74% contro lo stesso Yoon. In questi anni ha subito aggressioni fisiche, inchieste giudiziarie (alcune ancora in corso, ma congelate per via dell’immunità presidenziale), e una costante campagna denigratoria. Eppure è riuscito a imporsi alle urne.

I suoi orientamenti sono progressisti per gli standard sudcoreani, anche se ancora conservatori su temi come diritti LGBT+ e parità di genere (bisogna considerare che la Corea del Sud è una società molto conservatrice su questi aspetti). Sul fronte estero promette un cambio di passo netto: più autonomia dagli Stati Uniti e un riavvicinamento, almeno diplomatico, alla Corea del Nord.

In tutto ciò, racconta il Post, c’è una strana questione che si è aperta subito dopo il suo insediamento e che riguarda il simbolismo del potere, che è una roba che ha una presa piuttosto forte in Sud Corea. Il nuovo presidente ha trovato il suo ufficio vuoto, senza carta né computer, e ha criticato la precedente amministrazione per questo gesto. Ma non solo. Ha già detto che vuole cambiare nuovamente la sede presidenziale, che attualmente si trova nel quartiere di Yongsan. 

Lee vuole riportare tutto alla storica “Casa Blu”, abbandonata da Yoon per presunte ragioni scaramantiche, e ristrutturarla come sede della presidenza. Un’operazione che sta suscitando un po’ di polemiche perché costerà altri milioni di dollari, dopo quelli già spesi per il precedente trasloco, 3 anni fa.

E non è finita: Lee ha anche rilanciato l’idea di spostare la capitale amministrativa a Sejong, 100 km più a sud, per decongestionare Seul. Un progetto fermo da vent’anni, che ora potrebbe tornare sul tavolo.

Insomma, Lee si presenta con il piglio di uno che vuole cambiare molto – dagli equilibri internazionali alle fondamenta amministrative dello Stato – ma per farlo dovrà camminare in equilibrio tra riforme ambiziose e un’opinione pubblica ancora scottata dai recenti scandali. Vedremo.

Lo scorso marzo il governo ha varato una riforma che abolisce i test di ingresso in varie facoltà di medicina, odontoiatria e veterinaria. Ieri è arrivato il decreto che chiarisce come funzionerà il nuovo accesso. In pratica non ci sarà più il test d’ingresso classico, è vero, ma non sarà nemmeno un “liberi tutti”. Il sistema di filtro si è solo spostato di qualche mese.

Succede che da quest’anno, chiunque potrà iscriversi al cosiddetto “semestre filtro”, tre mesi di corsi in Chimica, Fisica e Biologia che si concluderanno con esami a risposta multipla e aperta. Solo chi supera tutte e tre le prove con almeno 18 su 30 potrà continuare il percorso. Gli esami saranno identici a livello nazionale, e ripetibili fino a tre volte.

Come spiega il Post, “Finora chi voleva iscriversi a medicina, odontoiatria e veterinaria doveva sostenere un test d’ingresso che consisteva in 60 domande con 5 possibili risposte da risolvere in 100 minuti. Ora chiunque potrà iscriversi al primo semestre delle tre facoltà, e in questo periodo dovrà frequentare tre corsi che sono comuni a tutte e tre: alla fine dei corsi gli studenti dovranno sostenere i relativi esami e solo in caso di superamento potranno continuare con gli studi nel corso di laurea scelto.

I corsi comuni alle tre facoltà da frequentare nel semestre “filtro” sono: Chimica (più precisamente Chimica e propedeutica biochimica), Fisica e Biologia”.

Nel frattempo, ogni studente dovrà iscriversi anche a un corso di laurea “affine” – tipo Biotecnologie o Scienze biologiche – per non rimanere fermo in caso di esito negativo. 

Ora, la domanda principale è: tutto questo porterà davvero più medici nel sistema sanitario nazionale? Perché la motivazione principale che ha mosso questa riforma è che il nostro sistema sanitario nazionale soffre da anni di carenza cronica di personale. La risposta è: non necessariamente. Perché il problema, come si intuisce, non è tanto quanti studenti iniziano medicina, ma quanti riescono ad arrivare in fondo, a specializzarsi, a entrare stabilmente nel sistema.

E i principali colli di bottiglia non sono tanto il test d’ingresso ma sono più avanti: il numero di borse di specializzazione insufficienti, le condizioni lavorative disincentivanti soprattutto nel pubblico, che spinge sempre più personale a cercare di lavorare nel privato, e un’emorragia continua di giovani medici che cercano all’estero ciò che qui non trovano. Il “semestre filtro”, insomma, non risolve la crisi strutturale.

Domenica 2 giugno si è votato in Messico per rinnovare tutte le principali cariche giudiziarie del Paese, dalla Corte Suprema ai tribunali locali. È la prima volta che succede, non solo in Messico ma in tutto il mondo, ed è frutto di una controversa riforma voluta dal partito di governo Morena, lo stesso della presidente Claudia Sheinbaum.

La riforma – approvata nel 2024 dopo accese proteste e perfino un assalto al Senato – ha trasformato radicalmente il modo in cui vengono scelti i giudici: da nomine istituzionali a elezioni popolari. L’obiettivo dichiarato era quello di “democratizzare la giustizia” e combattere corruzione e nepotismo, ma molte organizzazioni per i diritti umani (tra cui Human Rights Watch), gran parte dell’opposizione e numerosi giudici in carica hanno definito la riforma un pericolo per la separazione dei poteri. Secondo i critici, il nuovo sistema rischia di produrre giudici politicizzati, inesperti o perfino legati al crimine organizzato.

A rendere il tutto ancora più controverso è stata la bassissima affluenza: solo il 13% degli aventi diritto ha votato, il minimo storico in una consultazione nazionale in Messico. Anche perché le opposizioni avevano invitato al boicottaggio, e in alcune aree si sono registrati episodi di pressione elettorale e interferenze, come la diffusione di “liste” dei candidati raccomandati dal governo.

Fra i vari risultati prodotti da questa riforma però, almeno uno è interessante e particolare. Da osservare. E riguarda la Corte Suprema: infatti è stato eletto presidente della Corte Hugo Aguilar Ortiz, avvocato di origine mixteca, la prima persona indigena a ricoprire questo ruolo da 170 anni, dai tempi del celebre Benito Juárez. Aguilar ha vinto con circa 6 milioni di voti, e ha promesso di “restituire una voce alle popolazioni indigene nelle istituzioni”.

Tuttavia molte associazioni indigene lo accusano di non rappresentarle davvero. Aguilar ha infatti passato gli ultimi vent’anni lavorando per il governo, è stato coinvolto in progetti contestati come il “Treno Maya” – criticato per i suoi impatti sulle foreste e le comunità locali – ed è considerato molto vicino a Morena, il partito che ha voluto la riforma. Insomma, una vittoria dal forte valore simbolico, ma che apre molte domande su indipendenza della giustizia, democrazia e rappresentanza. 

Audio disponibile nel video / podcast

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